Ciao Felice Gimondi, un campione che vive nella curva del silenzio
Aggiornato 17/08/2019 alle 15:00 GMT+2
Ultimo mito di un’epoca sportiva in cui il ciclismo era amato da tutti, Felice Gimondi è stato un campione buono che ha vinto nei giorni di Merckx. Aveva una voce gentile e gli occhi così grati ai pedali: ci mancheranno i suoi racconti, il suo sorriso e le sue parole.
Ogni volta che lo incontravo mi diceva «Salutami tuo papà», sapendo che era un suo grande tifoso. Voglio bene a Felice Gimondi per la sua voce gentile e quegli occhi così grati ai pedali. Voglio bene a Felice perché aveva la bontà dello zio preferito, per un’infanzia fitta di racconti delle sue imprese. Gli voglio bene perché mi sorrideva sempre e oggi che il sole ha cancellato tutto, rimarrà il ricordo acceso di una persona solamente splendida.
Felice Gimondi scrisse giorni di grande ciclismo per l’Italia vestendo tutte le più belle maglie: vinse il Tour de France, tre Giri d’Italia e la Vuelta di Spagna. Passò per primo sul traguardo della Parigi-Roubaix e due volte su quello del suo Lombardia, dominò una Milano-Sanremo da campione del mondo. Vinse tutto nell’epoca di Merckx e quando «Quello là» non c’era, con un superbo colpo di pedale, si scrollava di dosso gli altri belgi: «Meglio primo senza Merckx che secondo con Merckx».
Sapeva raccontare aneddoti bellissimi. Come quando gli chiesi dello Stelvio, la montagna sacra del Giro d'Italia, e lui fu il primo a scalarlo nel 1965 al debutto tra i professionisti, finché la corsa non si fermò a mille metri dal Passo bloccato da una slavina: «La prima volta che ho fatto il Giro, ero sullo Stelvio coi primi del gruppo quando è venuto giù un muro di quattro o cinque metri di neve. Siamo scesi dalle bici e ce le siamo caricate in spalla per scavalcare la neve e avanzare verso la cima».
Felice Gimondi era un uomo generoso che, umilmente, voleva che il suo valore fosse ammesso dai rivali e capito da tutti. La sua ragione era pratica: poche scuse, tanti fatti. Netto e combattivo, come la scorza semantica del suo ciclismo. Duro e svelto come l’estetica della strada. Per questo, per la sua ampiezza verticale e un dovere di compensazione, piaceva così tanto ai grandi autori e cronisti. Come a Gianni Brera, che lo chiamava Nuvola Rossa e doveva commuoversi prima di scrivere, sentire emozioni remote e puerili per stendere una magia sulla sua olivetti.
Felice Gimondi fu l’ultimo mito di un’epoca sportiva in cui il ciclismo era amato da tutti, con un tessuto sociale e la sua passione identitaria. Amaramente, mi diceva che «Se oggi non è più così, è perché il ciclismo rispecchia la situazione del nostro paese». Quando l’ultimo 29 settembre lo chiamai per gli auguri di buon compleanno, mi disse che alle corse non ci sarebbe andato più: «Perché ho mal di schiena e soffro a stare al palo senza correre in bici!». Piango, rido e tu, tu non sai perché. Ciao Felice, piena di te è la curva del silenzio.
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