Olimpiadi, Pugilato: Muhammad Ali, il più grande di tutti. Dal trionfo a Roma '60 come Clay all'eternità di Atlanta

Le Grandi Storie Olimpiche - Prima di diventare Muhammad Ali, è stato Cassius Clay. Prima d’essere re, ha vinto i Giochi di Roma 1960. Prima di lasciare il ring della vita, ha acceso il braciere di Atlanta, ultimo tedoforo vestito di bianco. Di medaglie perdute e diritti umani: questa è la storia olimpica di The Greatest.

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Da Clay a Roma ad Ali ad Atlanta: Fuoco e Fiamme

Questa è la storia di una medaglia d’oro gettata nel fiume. Di un diciottenne afroamericano che vuole ballare sul mondo. Di un cinquantenne fragile e tenace. Di una fiamma che brucia fra due epoche, due guerre, due continenti, due Olimpiadi. Due nomi, un uomo, il migliore. Il più grande.
Questa è la storia di Cassius Marcellus Clay diventato Muhammad Ali. Di uno schiavo divenuto re. Del pugile campione olimpico di Roma 1960 e del campione del mondo dei pesi massimi. La vita insuperabile di un black man nato a Louisville, nel Kentucky, il 17 gennaio 1942: mentre l’America è impegnata a salvare il pianeta, ma sui suoi autobus i bianchi si siedono davanti e i neri in fondo. E se un bianco non trova posto, un nero deve alzarsi sulla lunga strada verso casa.
A dodici anni, il giovane Cassius entrò per la prima volta in una palestra, la Colombia Gym di Joe Martin, che l’aveva sentito inveire contro il ladro ignoto della sua bicicletta. Passati pochi giorni, Clay era ancora lì a gridare «Sarò il più grande, diventerò campione del mondo dei pesi massimi!» a chiunque volesse ascoltarlo e di più a chi invece non ne aveva alcuna intenzione. Un’indole sfacciata che, se sgradita ai pugili colleghi, conquistò Martin insieme a certe sue magnifiche doti fisiche.
Coraggioso, controverso, superbo e altero, rude e leggiadro, praticamente irresistibile. Cassius Clay ha urlato al cielo la sua grandezza, la sua bellezza, la sua sostanza. Ha battuto 52 pugili professionisti, mettendone 34 KO. Ha difeso 8 volte il titolo dei pesi massimi prima d’essere sospeso, forzato ad arruolarsi nell’esercito e arrestato per renitenza alla leva, visto che nessun Vietcong l’aveva «mai chiamato negro». Se l’è ripreso combattendo in un’altra giungla, sul ring di Kinshasa, contro George Foreman nel match di boxe più famoso di sempre.
Il giorno dopo la sua prima cintura mondiale, sottratta a Sonny Liston il 25 febbraio 1964, ha rinunciato al suo nome da schiavo, convertendosi alla Nation of Islam. E perché la storia di Cassius Clay diventi la leggenda di Muhammad Ali, ne manca un terzo: The Greatest.

Capitolo 1 - Aveva paura di volare

Il giovane Cassius aveva paura di volare. Così, dopo avergli insegnato a tirare di boxe fra i precetti di vita, fu ancora Joe Martin a metterlo su un aereo.
Erano passati sei anni da quando Clay mise per la prima volta un paio di guantoni, vincitore dei Golden Gloves del miglior pugile amatore d’America, della divisione pesi massimi leggeri nel 1959 e dei massimi nel 1960, doveva essere lui a rappresentare gli USA ai Giochi Olimpici, ma Louisville e Roma distano 8mila chilometri.
Voglio andarci in barca o in treno.
"La prima soluzione non è ragionevole, la seconda impossibile", gli spiegò Joe Martin.
"Allora non andrò alle Olimpiadi", così parlò il giovane Cassius.
Nella sua paura di volare c’era il vissuto di quando, pochi mesi prima, durante un viaggio in California per le qualificazioni olimpiche, fu traumatizzato dalle forti turbolenze.
"Peccato sai, perché a Roma c’è una medaglia d’oro col tuo nome sopra", Clay non ebbe un maestro meno ostinato di lui.
E come spiega Martin in un documentario della HBO, alla fine riuscì a convincere Clay: "Era diventato davvero insopportabile per tutti, così l’ho portato al Central Park di Louisville e abbiamo parlato per un paio d'ore. Tanto mi ci è voluto a persuaderlo, o meglio per convincerlo che se non fosse andato a Roma, non sarebbe mai diventato campione dei pesi massimi".
Il giovane Cassius era finalmente a bordo, ma tutt’altro che rincuorato. Anzi, cercò perfino di procurarsi dei dossier della U.S. Air Force sul verificarsi di incidenti aerei sulla tratta verso Roma. E all'aeroporto di Louisville, che dal 2019 porta il suo nome musulmano, si presentò con un paracadute. Nemmeno nella peggiore delle ipotesi gli sarebbe servito, ma nessuno seppe fargli cambiare idea.
Ci sono molte testimonianze di quel viaggio: parlano di un giovane Cassius molto agitato, che non ha mai smesso di parlare e pare molto credibile. Che ha pregato durante il decollo e ancora a lungo osservando il credo battista, prima di vagare per le corsie di bordo dicendo a tutti gli olimpionici (e non) che, se fosse sopravvissuto a quel volo, avrebbe portato la medaglia d’oro sull’aereo di ritorno.
In effetti, sul ring olimpico Clay fu già una splendida sintesi di forza, tecnica e rapidità. Del suo primo avversario, il belga Yann Becaus, disse che aveva un nome ridicolo. Del secondo, il sovietico Gennady Shatkov, campione olimpico dei pesi medi di Melbourne 1956, che era troppo smilzo e il terzo, l'australiano Tony Madigan, troppo grasso. Ce ne aveva per tutti e all’ultimo rivale riservò le corde: il polacco Zbigniew Pietrzykowski aveva ventisei anni con più di 230 incontri all’attivo, molto più esperto del giovane Cassius, che doveva batterlo evitando i contrasti del giorno prima, quando un altro statunitense (Eddie Crook) vinse contro un altro polacco (Tadeusz Walasek) in un rovescio di polemiche. In finale, il giovane Cassius faticò a entrare nel raggio d'azione contro lo stile solido e concreto di Pietrzykowski… Ma senza mai smettere di migliorare nel corso del match. Roma 1960 è alle origini di un mito destinato alla grandezza eterna.

Capitolo 2 - Roma 1960: il sindaco del Villaggio Olimpico

Se a Roma negli anni Sessanta fossero esistiti i selfie, Clay avrebbe fatto una foto con tutti. Aveva proprietà comunicative straripanti e contagiose fra gli atleti di tutti i continenti e presto fu chiamato The Mayor of the Village: Il sindaco del Villaggio.
"Clay fu uno degli atleti più popolari dell’estate romana - scrisse Dave Kindred sul New York Times - Tutti volevano essere suoi amici e ne furono ampiamente influenzati. Era come una calamita".
Kindred è probabilmente il giornalista che ha scritto più pagine di Cassius Clay e Mohammad Ali. Nel suo libro del 1970 Sound and Fury, che rivela il loro forte legame intellettivo, Kindred racconta un aneddoto di Roma 1960: «In una foto della squadra olimpica USA di pugilato, Clay si trova in fondo e inclina la testa più che può, sporgendosi sulla fila davanti. Si sta assicurando d’esser visto e che la sua faccia finisca nella foto. Vuole essere famoso».
Non era solo questione d’apparenza. Era una missione sportiva per impellenza sociale. Dall'età di quindici anni, Clay si sottopose a un regime d’addestramento severo e unico per un giovane dilettante. Il suo compito di diventare campione del mondo dei pesi massimi cominciava alle 4 del mattino, correndo per le strade incolte di Louisville.
John Powell era a quel tempo il garzone di una liquoreria, primo ad arrivare per ricevere le forniture, e ogni giorno vedeva Clay correre per strada, nelle più rigide mattine d’inverno o prima di un’umida alba d’estate: «Potevo scorgere la sua ombra venire da Grand Avenue verso Chicksaw Park - racconta Powell a Sports Illustrated -. Al freddo e al buio, persino se pioveva, quell’ombra veloce si fermava ogni volta davanti alla bottega e saltellando leggera mi gridava: “Un giorno, fratello, tu possiederai questo negozio e io sarò il campione del mondo dei pesi massimi!”. E sono grato a Dio che tutto ciò si sia avverato».
Alla fine dell'estate del 1960, il giovane Cassius era finalmente famoso. Scrive Dave Kindred: "I Giochi furono l’istantanea della sua celebrità. Aveva diciott’anni e si sentiva bellissimo, era rumoroso e divertente, un uomo affamato di successo". Clay era un ragazzo del Kentucky circondato da una delegazione olimpica di star americane, fra cui la velocista Wilma Rudolph vincitrice allo Stadio Olimpico di 3 medaglie d’oro nei 100, 200 e 4x100 metri piani.
Fu una Golden Fortnight di dolce vita atletica in cui Cassius e Wilma si piacquero molto, ma forse non tutti sanno che dietro al continuo trash talk di Clay si nascondeva un’intensa timidezza. Scrive Sports Illustrated nel 1992, celebrando il cinquantesimo compleanno di Ali: "Cassius Clay e Wilma Rudolph legarono molto nei giorni trascorsi insieme a Roma. Lui era molto dolce, ma troppo timido per dirle cosa provava e piuttosto maldestro con le ragazze: appena due anni prima, era svenuto al primo bacio e ci volle un asciugamano freddo per farlo rinsavire". Come dopo un gancio sul ring, che però era lui solito a dare.
"I suoi coetanei lo amavano - ricorda Wilma Rudolph nello stesso articolo - e tutti volevano vederlo e stargli vicino. Tutti volevano parlare con lui… E lui parlava sempre! Anche con me, che mi mettevo in disparte senza ascoltare proprio tutto quel che diceva…". Così, dopo i loro trionfi olimpici, trascorsero del tempo insieme a New York e a Louisville, dove lui l’andava a prendere in aeroporto urlando a ogni incrocio dal finestrino dell’auto:
Guardate qua, gente! Lei è Wilma Rudolph: è la più grande! E io sono Cassius Clay. Io sono il più grande!
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Muhammad Ali sul podio di Roma 1960 con la medaglia d'oro al collo

Credit Foto Getty Images

Capitolo 3 - Un diverso eroe americano

Nel 1960, Cassius Clay non era ancora campione dei pesi massimi e “lo sarà per un solo giorno”, ma vinse la medaglia d’oro olimpica. Se ne vantava incessantemente per ogni angolo del Villaggio Olimpico, senza levarsela mai dal collo, nemmeno in mensa, nemmeno a letto:
Non ho mai tolto quella medaglia per quarantotto ore. Ci ho perfino dormito, non troppo bene perché per la prima volta me ne stetti a pancia in su, ma non m’importava perché ero il campione olimpico.
Al suo ritorno, durante la parata dei campioni a New York, Clay traversò Times Square in prima fila mentre a Louisville trovò la bandiera americana sventolare sopra il portico di casa. Suo padre Cassius Marcellus senior, d’origine malgascia, nativo americano di seconda generazione, aveva dipinto i gradini di rosso, bianco e blu, e l’accolse con una rovente interpretazione dell’inno Star-Spangled Banner per l’imbarazzo di mamma Odessa Lee Grady: di ascendenza afroamericana con un bisnonno irlandese che, avendo sposato una schiava di nome Dinah, fu costretto a servire nel reggimento United States Colored Troops durante la Guerra di secessione.
Eppure, vinte le Olimpiadi, Cassius Clay fu un eroe nazionale, figlio d’America, cerimoniato nel municipio di Louisville e poi dal governatore del Kentucky. Lui che fu visto salire sui tetti delle case gridando la sua sete di successo, diventato la nuova icona dello sport statunitense. Ancora a Roma, durante la sua ultima conferenza stampa, un giornalista sovietico gli chiese: "Come uomo di colore, lei sa che, nonostante abbia vinto le Olimpiadi, non le sarà permesso di mangiare in certi ristoranti nel suo Paese?".
"Sei russo, vero? - rispose il giovane Cassius - Beh, sai, nel “mio” Paese ci sono molti uomini virtuosi che cercano di risolvere questo problema. Però intanto le nostre macchine sono più grandi e più belle delle vostre. Abbiamo tutto il cibo che ci serve. L'America è il più grande paese del mondo, più grande del vostro, e per quanto riguarda i posti dove non posso mangiare, sai, nei migliori ristoranti invece potrò farlo!".
Ma si sbagliò. Perché l’America degli anni Sessanta era ancora un Paese profondamente razzista. E lui, un atleta olimpico ciò malgrado diverso, fu pronto a combattere per il titolo di "Campione dei diritti umani", annunciato all’angolo sinistro da Martin Luther King.

Capitolo 4 - Cassius X

Il 29 ottobre 1960, Cassius Clay disputò e vinse il suo primo incontro da professionista contro Tunny Hunsacker, all’inizio di una lunga marcia trionfale verso la cintura dei pesi massimi. Furono gli stessi giorni in cui s’accorse che il suo status di campione olimpico non gli avrebbe conferito i diritti che non aveva per legge razziale.
Un giorno di fine anno, Clay e il suo amico Ronnie King entrarono in un ristorante Banned for blacks, “Vietato ai neri”, ordinando un paio di hamburger e due frullati alla vaniglia a una cameriera non autorizzata a servirli: «Ma signorina, io sono Cassius Clay, il campione olimpico!», disse il giovane Cassius sventolando la medaglia, che era solito portarsi ovunque. Sempre più timida e impacciata, lei chiese al suo responsabile che le rispose: «Non me ne frega un cazzo di chi sia, qui non serviamo negri».
"Mi sta bene. Anch’io non li mangio!", fu la replica di Clay che stavolta, oltre la sua solita splendida espressione, s’accorse tristemente della verità più razzista. E così via, molto disturbati, una banda di motociclisti al bancone intervennero per allontanare i due “intrusi” dal locale aggredendoli brutalmente. Avevano scelto i pugni sbagliati.
Più tardi, i due amici s’incontrarono al fiume per lavare le camicie sporche di sangue. King fu il primo ad arrivare e vide Clay gettare la sua medaglia d’oro dal Jefferson Bridge.
Lo rivela Ali per la prima volta nella sua autobiografia, The Greatest, nel 1976:
La mia luna di miele olimpica era finita con tutte le sue illusioni. Così per la prima volta guardai la medaglia d’oro solo come un oggetto e la lanciai nel fiume e subito mi sentii calmo e rilassato, cosciente del fatto che le mie vacanze romane erano finite e già bisognoso di una nuova forza segreta.
Eppure, sessant'anni dopo, nessuno sa la verità sulla medaglia di Ali. Nel documentario Sports Detective del 2016, trasmesso il giorno dopo la morte di The Greatest, l'ex agente dell'FBI Kevin Barrows e la giornalista Lauren Gardner “riaprono l’indagine” intervistando Victor Bender, un amico d'infanzia che non hai mai sentito parlare della storia del fiume: "Penso che l'abbia semplicemente persa". Una facile teoria ripresa in diverse biografie di Ali, tra cui la più famosa di Thomas Hauser: His Life and Times.
Certo gli autori del documentario hanno scoperto che la medaglia di Ali è ancora oggetto di dibattito a Louisville: "Una città divisa da una verità mai detta, altro che leggenda metropolitana", spiega Barrows al momento della messa in onda. "Una città che ama ancora molto il suo grande atleta ed è sempre pronta a difendere una storia, quale essa sia, radicata alle strade del campione".
Giace in fondo al Fiume Ohio, o perduta nel tempo, la medaglia d’oro olimpica di Cassius Clay nel punto di rottura della vita di un uomo destinato a diventare un campione: dentro e fuori dal ring. Il giorno in cui decise di combattere contro un'America che celebrava le sue imprese sportive, negandone i diritti di uomo.

Capitolo 5 - Ali Dream Team

Il 4 agosto 1996 i Giochi del centenario moderno volgono al termine. La finale del torneo di basket, che vede opposti USA ed ex-Jugoslavia, è uno degli eventi più attesi e seguiti dell’ultima edizione olimpica americana. Sono i Giochi di Atlanta, della bomba all’Olympic Park, del Dream Team 2.0 di Scottie Pippen, Charles Barkley, Karl Malone, Hakeem Olajuwon e Shaquille O’Neill; dei 100 metri di Gail Devers, della doppia medaglia d’oro di Michael Johnson e della quarta di Carl Lewis nel salto in lungo: tutti atleti afroamericani al cospetto dell’ultimo tedoforo: Mohammad Ali.
Nell’intervallo di una finale dominata dal Team USA, un’ovazione si diffonde sugli spalti del Georgia Dome mentre lo speaker annuncia l’arrivo di un ospite a sorpresa: "Ladies and Gentlemen, sta per entrare The Greatest". Il Comitato Olimpico Internazionale ha deciso di premiare il campione dei medio-massimi di Roma 60 con una replica della sua medaglia d'oro. Che fosse stata lanciata nel fiume. Che sia finita perduta.
Ali è ancora commosso: lui che ha dominato i palchi e acceso i ring di tutto il mondo, a cinquantaquattro anni è un uomo malato di Parkinson. Nervoso, a passi incerti, divorato dall’orrendo morbo, ma con la forza luminosa del suo celebre “sorriso attivista”: quello sì d’una bellezza rimasta intatta da Roma 60 di Cassius Clay ad Atlanta 96 di Muhammad Ali.
Mentre stringe la nuova medaglia tra le mani e se la porta adagio alle labbra per baciarla, la descrizione dell’attimo raschia via gli ultimi rancori dell’oro gettato da un ponte, che divide la causa dell’integrazione razziale dalla militanza Black Muslims e Black Power.
Ali mette tutti al tappeto con l’ultimo pugno, così tenero, così fatale. Il Dream Team rientra in campo per abbracciare The Greatest, poi è la volta degli jugoslavi, fra cui il centro Vlade Divac, che versa lacrime da gigante. I Giochi Olimpici del 1996 finiscono come erano iniziati sotto il braciere: nel segno di Ali.
Muhammad Ali emoziona Atlanta alzando la torcia Olimpica: un immagine rimasta nella storia

Capitolo 6 - L'ultimo tedoforo

Si diceva che Ali fosse troppo malato di Parkinson per portare il fuoco, così circolò presto la notizia di un altro pugile medagliato (bronzo di Los Angeles 1984) cresciuto ad Atlanta, ex-campione del mondo dei pesi massimi e da pochi mesi tornato sul ring: Evander Holyfield, pronto a sfidare Mike Tyson nel novembre di quell’anno.
Holyfield non può mancare all’Olympic Stadium, ma per passare la fiaccola alla velocista greca Voula Patoulidou, medaglia d’oro a Barcellona 1992, dopo averla ricevuta all’ingresso dello stadio dal sessantenne Al Oerter, discobolo imbattuto ai Giochi Olimpici da Melbourne 56 a Mexico 68.
A Patoulidou succede Janet Evans, che ha vinto quattro medaglie d’oro nel nuoto fra Seul 88 e Barcellona 92 ed è il penultimo tedoforo di Atlanta fin sopra la piattaforma del gigantesco braciere. È una delle poche persone a sapere, ma da poco, a chi avrebbe passato la torcia:
Ero stata informata allo scoccare della mezzanotte, meno di ventiquattr’ore prima, durante le ultime prove della cerimonia: chiesi perché mancasse l’ultimo tedoforo e mi risposero che sarebbe stato Muhammad Ali. E quando mi dissero che dovevo mantenere il segreto, quasi svenni all’idea di non poterlo dire a tutti, ma soprattutto pensando che avrei dovuto passare la fiamma olimpica a The Greatest.
Vestito di bianco, con il corpo tremante e una volontà di ferro, l’ultimo tedoforo accende il braciere dei Giochi del centenario. Giunge da Louisville, dove è nato e ha marciato con Martin Luther King per i Diritti Umani. Da Roma, dove ha vinto le Olimpiadi. Da Miami, conquistato il titolo di campione del mondo all’inizio d’una notte storica con Malcolm X. Da Lewiston, battendo ancora Sonny Liston con la foto più famosa del Ventesimo Secolo. Da Rahway State Prison, dove ha incontrato il detenuto Hurricane Carter. Da Città del Capo, dove ha abbracciato forte Nelson Mandela.
Viene dai tribunali di New York e Houston, colpevole di aver disertato il Vietnam. Viene dalla giungla di Kinshasa, dai fiori bianchi di Manila. Dai cuori infranti di George Foreman, di Joe Frazier e di tutti. Viene da ogni luogo e arriva ad Atlanta per la sua ultima volta al centro d’un mondo che tiene il respiro, rivedendolo in mezzo al ring con il fuoco in mano e un altro nemico, il più brutto, da mettere alle corde. Si chiama Muhammad Ali, fragile come una farfalla che punge come un’ape.
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Muhammad Ali, un gigante dentro e fuori dal ring

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