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Quando Sinner era solo Jannik: aneddoti e curiosità sul campione italiano di tennis che ha conquistato l'Italia

Federico Ferrero

Pubblicato 29/11/2023 alle 15:05 GMT+1

Ora che Jannik Sinner ha fatto breccia nel cuore dei tifosi italiani grazie alla cavalcata con l'Italia fino alla conquista della Coppa Davis, scopriamo chi era quel giovane ragazzino cresciuto in Alto Adige col sogno di diventare sciatore ma con la passione del tennis, tra aneddoti e curiosità... Più o meno noti.

Tennis Expert - Jannik Sinner

Credit Foto Eurosport

Ora che tutto è andato in prescrizione, uno dei primi ricordi che ho di Jannik prima che diventasse Sinner è un pranzo in agriturismo. Di quelli col minestrone e le fette di pane rustico, mentre i porcellini neri grufolano attorno alla casa (non è una licenza poetica: il posto si chiama Magauda ed esiste davvero). Pane che Maria inzuppava avidamente nel brodo fumante di verdure e io, da autentico cretino, mi chiedevo come mai anche a una diva multimiliardaria piacesse fare le cose che, da piccolo, facevo a casa di mio nonno quasi di nascosto. Maria, a differenza di Sinner, era già col cognome (Sharapova), anzi: ormai era quasi la fu-Sharapova, al capolinea della carriera. Al tavolo ero stato presentato come “amico” degli altri commensali, quindi mi potei godere una chiacchierata libera, che tale non sarebbe stata se qualcuno mi avesse identificato come giornalista. A un certo punto, lei buttò lì una frase che, all’incirca, suonava così: "Ma lo avete letto, che Federer va a giocare una esibizione in Messico? E chi glielo fa fare?". Fu l’unica volta in cui mi venne la tentazione di autodenunciarmi – e non perché l’avrei commentata su Eurosport insieme a Jacopo Lo Monaco, quella partita, ma perché volevo spiegarle che, a mio avviso, non fossero stati i soldi a muoverlo, come probabilmente sottintendeva. Stetti zitto e continuai a mangiare il minestrone. Guardando all’altro tavolo, notai il ragazzo che si allenava da Piatti. Jannik. I cui genitori erano arrivati da Sesto Pusteria il giorno prima, per salutarlo perché non lo vedevano da un po’. Conosco discretamente l’Alto Adige e non mi stupì il mood di quel pasto: sentivi solo il rumore delle posate appoggiate sul piatto. Zero parole.
Non ho nulla da raccontare di clamoroso su Jannik quando ancora non era Sinner, anche se – ci crediate o meno – avevo introiettato lo stesso pensiero di chi lavorava con lui: adesso è qui, e non lo conosce ancora nessuno. Ma ci sarà un giorno in cui tutti sapranno chi è Sinner. Pure il presidente della Repubblica. In quei mesi, dovevo terminare la stesura del libro di Riccardo Piatti e mi dissero di farmi anche due parole con lui, con Jannik. Non era un’intervista, delle prime che i giornali iniziavano a chiedere. Anzi, ora ricordo che c’era stata una prima incursione spiacevole, di quelle con l’inviato che mette il piede davanti alla porta perché gli intervistati non la richiudano. Un giornalista di un quotidiano nazionale era andato a cercare le tracce di Jannik a casa sua, senza avvertire nessuno, e aveva trovato i suoi genitori nel rifugio della Val Fiscalina in cui lui cuoceva pietanze in cucina e lei rifaceva le camere. Non si erano ribellati, non era nel loro carattere, ma non avevano gradito.
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Jannik Sinner

Credit Foto Getty Images

Tra l’altro, io neanche volevo che mi parlasse di lui ma del suo coach. Ci sistemammo in uno stanzino, dall’altro capo del tavolo c’era Luigi Bertino, a lungo uomo di fiducia di Piatti, e mi stava benissimo rimanesse lì, anche per rendere l’atmosfera più familiare. Dopo qualche minuto, abbandonai il proposito. Non c’era davvero modo di scalfire la sua corazza, anche per un impaccio linguistico che, a diciotto anni e poche occasioni di parlare in italiano se non col lessico del campo, era ancora evidente. Gli domandai se gli piacesse lo stile di Riccardo, che voleva si rendesse al più presto indipendente, e mi chiese cosa significasse "indipendente". Gli chiesi se era d’accordo con il suo coach sul fatto che fosse positivo incontrare anche subito quelli forti nei grandi tornei, e magari perderci, pur di farsi un’esperienza che poi avrebbe pagato. Non ricordo esattamente la risposta ma credo sia stata un "mah, non so".
Mio figlio è stato campione italiano di sci, gli piace molto praticarlo. Ma so che vuole giocare a tennis. Io, come papà, sono stato fortunato due volte: ci dicevano che non potevamo avere figli e abbiamo lottato per adottare il primo; poi, contro ogni probabilità, è arrivato il secondo. Quindi voglio che faccia quello che si sente di fare
Però, durante il mio soggiorno a Bordighera, mi raccontarono alcuni episodi carini. Il primo, ormai, lo conoscono in tanti, almeno nella sua parte più divulgata: era successo nel novembre del 2014. L’ex giocatore Alex Vittur (numero 605 Atp nel 2004), di a Brunico, telefonò al coach di Andreas Seppi, Max Sartori, chiedendogli di vedere un ragazzino di San Candido perché meritava. Sartori organizzò un palleggio con Seppi che, però, quel giorno aveva mal di schiena e, a tirare la palla a Jannik, ci andò direttamente lui – un ex seconda categoria, mica un incapace. Sartori restò basito dalle qualità del ragazzino, che era seguito da colui che, in Alto Adige, è da una vita il punto di riferimento del tennis, Heribert Mayr. Il resto della storia è noto: Sartori parlò a Piatti, che inizialmente non aveva tempo né troppa voglia di visionare l’ennesimo giocatore segnalato da qualcuno. Poi, finalmente, lo vide e, invece di accontentarsi di ingaggiarlo, chiese a Sartori: "Questo qui come facciamo ad adottarlo?"
Ecco, anche dell’adozione, ormai, si sanno tante cose. Forse non tutti, invece, hanno contezza del fatto che Hanspeter e Siglinde Sinner diedero il nulla osta (al trasferimento del figlio dalle cime bianche di Sesto alla schiuma del mare della Liguria) con la stessa domanda che il papà di Seppi aveva fatto, anni prima, a coach Sartori: "Ma perché volete portare Jannik con voi?". "Perché se non si può lavorare con uno come lui, allora tanto vale smettere di fare il coach". Più avanti, quando si dovette decidere l’effettiva migrazione dall’Alto Adige, a differenza di tanti genitori che avrebbero detto di no - o forse preteso di mollare il proprio mestiere e di mettere il naso nelle scelte agonistiche del figlio - papà Sinner diede il via libera così: "Mio figlio è stato campione italiano di sci, gli piace molto praticarlo. Ma so che vuole giocare a tennis. Io, come papà, sono stato fortunato due volte: ci dicevano che non potevamo avere figli e abbiamo lottato per adottare il primo; poi, contro ogni probabilità, è arrivato il secondo. Quindi voglio che faccia quello che si sente di fare". Quando un coach spiega che, a parte un giocatore, per capire se avrà futuro vuole conoscere anche i suoi genitori, secondo me ha perfettamente ragione.
Ad accoglierlo nella sua famiglia era stato uno dei maestri di Bordighera, il croato Luka Cvjetkovic - che ora si è riavvicinato a casa ed è head coach dell’accademia di Ivan Ljubicic sull’isola di Lussino - anche perché aveva figli più o meno della sua età. Non risultano momenti in cui sentisse la nostalgia di casa, o perlomeno che lo desse a vedere. Cosa ottima, per chi vuole diventare giramondo del tennis. Se ti manca la pasta della mamma o il letto di casa, quel mestiere non fa per te. Un altro episodio che mi venne riferito, sempre di Jannik prima che fosse Sinner, era avvenuto all’isola d’Elba. Un pomeriggio, si divertiva a tuffarsi dagli scogli con le sorelle Anna e Bianca Turati. Le ragazze provavano a fare le capovolte e, più che altro, rimediavano sonore panciate; lui, pur essendo nato sulla neve e non avendo mai visto il mare, riuscì a fare il salto mortale al primo colpo. "Come hai fatto?", gli chiesero. Serafico, rispose: "Quando sei in aria, prova a pensare di dover fare due giri. Vedrai che ne riuscirai a farne almeno uno per intero". Ah, beh.
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Jannik Sinner posa con la Coppa Davis - Getty Images

Credit Foto Getty Images

Recentemente, tutti i media hanno ripreso le sue dichiarazioni sulla pressione, che ricordano un po’ quelle di trent’anni fa di Boris Becker: la vera pressione ce l’hanno i medici che operano le persone, non chi gioca a tennis, o i minatori che devono mantenere la famiglia. Che poi è una semplificazione, perché è sicuramente così ma l’idea che ci sia gente in difficoltà a pagare da mangiare ai figli o che ha in mano la vita altrui non mi risulta sia utile quando c’è da salvare un match point con la seconda di servizio. Almeno, io ci ho anche provato a sdrammatizzare, nelle situazioni di stress della mia vita, con l’esercizio della relativizzazione e non ci sono mai riuscito. Ma a quella stessa domanda, rivoltagli da teenager, mi ero appuntato la risposta: "No, paura di vincere o perdere no, la paura ce l’avevo quando mi buttavo giù dalle montagne ad alta velocità, col rischio di rompermi qualcosa. Al massimo, nel tennis, posso essere teso e perdere".
Mi venne riferito di un solo episodio in cui si era fatto prendere dallo scoramento: aveva sedici anni, aveva appena vinto un torneo giovanile nell’accademia di Emilio Sanchez e Sergio Casal a Barcellona, senza perdere un set. Perse, poi, al secondo turno nel torneo successivo e chiamò in accademia dicendo che era stanco, che stava giocando male e che voleva tornare indietro. Gli fu risposto che era lui a voler fare il professionista, non un altro. E che, quindi, si arrangiasse. A Sharm-el-Sheik, all’inizio dell’anno successivo, conquistò il suo primo punto Atp battendo l’indiano Aryan Goveas. Più tardi, quando perse nei quarti di finale al Bonfiglio contro Naoki Tajima, 7-6 al terzo con match point a favore, uscì dal campo con una racchetta malconcia e disse: "Basta, non voglio più fare tornei juniores". Non "non voglio più giocare", che è molto diverso. Era già Sinner, anche se quasi nessuno lo sapeva.
Per chiudere, sono a conoscenza di un altro episodio, alle NextGen di Milano 2019. Jannik era diventato Sinner per la prima volta, dandole di santa ragione a quel povero peso piuma di De Minaur in finale. Negli spogliatoi, mentre si docciava, era sceso il presidente della federazione italiana. Jannik non sapeva chi fosse e, nudo come era, in risposta alle congratulazioni gli aveva detto… No, non posso scriverlo. Però faceva ridere.
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