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Quando Michael Jordan si inventò un avversario immaginario: la faida con LaBradford Smith

Daniele Fantini

Aggiornato 12/05/2020 alle 18:25 GMT+2

L'ottava puntata della docuseries "The Last Dance" ricorda la figura di LaBradford Smith, giocatore di ruolo degli Washington Bullets che realizzò il suo career-high in una partita (persa) contro i Chicago Bulls di Michael Jordan. MJ sfruttò quell'episodio per inventarsi uno scambio di battute irriverente che l'avrebbe poi motivato a prendersi una clamorosa rivincita la sera successiva.

Michael Jordan #23 of the Chicago Bulls holds on to the ball guarded by LaBradford Smith #22 of the Washington Bullets during an NBA basketball game circa 1991 at the Capital Centre in Landover, Maryland.

Credit Foto Getty Images

LaBradford Smith. Se non ricordate questo nome o, meglio ancora, non l'avete mai sentito, non dovete preoccuparvi più di tanto. Vi basta sapere che, nonostante la chiamata numero 19 al draft del 1991, è stato un modesto giocatore di ruolo per sole tre stagioni in NBA, trascorse tra gli allora Washington Bullets e i Sacramento Kings. Con una media inferiore ai 7 punti realizzati a partita, Smith non ha lasciato un'impronta indimenticabile oltreoceano, ma ha avuto la fortuna di giocare la sua miglior partita della breve carriera NBA contro Michael Jordan. O meglio, una fortuna tramutatasi in sfortuna in meno di 24 ore.

La partita della vita di Smith: segna 37 punti contro Jordan

Il 19 marzo 1993, allo United Center di Chicago va in scena una partita da classico contesto di fine regular-season tra i campioni NBA e la squadra col peggior record della Eastern Conference: il risultato è già scritto da copione (Chicago batte Washington 104-99), ma LaBradford Smith spara il suo career-high realizzando 37 punti con 15/20 dal campo e un perfetto 7/7 in lunetta, numeri che, seppur non sufficienti al successo, oscurano una prestazione poco brillante di MJ, autore sì di 25 punti ma sporcati da un modesto 9/27 al tiro.
La leggenda narra che, al rientro negli spogliatoi, Smith avvicini Jordan e, con una pacca un po' ironica, gli sorrida sussurrandogli: "Bella partita, Mike". La storia, poi ripresa dalla stampa, porta lo stesso Jordan a replicare in maniera seccata: "Quanti punti ha fatto stasera? 37? Bene. Che si prepari perché domani gliene farò altrettanti. Ma nel solo primo tempo".
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Scelto con la numero 19 al draft del 1991, LaBradford Smith gioca per due stagioni con i Washington Bullets e per una con i Sacramento Kings.

Credit Foto Getty Images

La vendetta 24 ore dopo: MJ segna 47 punti e Chicago dilaga

Il calendario, infatti, propone un back-to-back con una nuova sfida tra Chicago e Washington la sera successiva, ma a campi invertiti. Jordan scende in campo con l'argento vivo addosso. Segna i primi otto tiri consecutivi realizzando 19 punti in soli 9', si prende una piccola pausa e torna in campo raggiungendo quota 36 all'intervallo lungo, soltanto uno in meno rispetto al fatturato promesso poche ore prima. La partita è già ben indirizzata: Chicago è in vantaggio di 15 punti a fine primo tempo e di 22 all'ultimo mini-riposo, e MJ chiude "accontentandosi" di 47 punti totali. Ma tutti, a partire dallo stesso Jordan, sono consapevoli del fatto che ne avrebbe tranquillamente segnati anche 60 se il punteggio fosse stato più ravvicinato rispetto al comodo successo per 126-101 finale. In quella seconda partita, Smith finisce a quota 15 con 5/12 al tiro, cifre rispettabilissime se confrontate con le sue medie di carriera, ma la verità è che da quella serata esce il ritratto di un giocatore disintegrato sul campo dalla furia di MJ, deciso a vendicare lo "sgarro" del giorno precedente.
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Michael Jordan #23 of the Chicago Bulls holds on to the ball guarded by LaBradford Smith #22 of the Washington Bullets during an NBA basketball game circa 1991 at the Capital Centre in Landover, Maryland.

Credit Foto Getty Images

Una storia inventata per auto-motivarsi: la complessità della mente di un grande campione

Tutto sistemato? Alla luce dei fatti la risposta è affermativa, ma, in realtà, Jordan ammetterà, in seguito, di non aver avuto nessuno scambio di battute con LaBradford Smith alla fine di quella partita. Quella provocazione è stata puramente frutto della sua stessa immaginazione, uno stratagemma mentale per auto-motivarsi in un momento della carriera e della stagione in cui faticava a trovare nuovi stimoli, con gli anelli già conquistati nelle due annate precedenti. Jordan si è costruito un "nemico immaginario" per estrarre nuovamente il meglio da se stesso, un'operazione riuscita alla perfezione e che spiega in modo lampante la complessità della mente di uno dei più grandi campioni della storia dello sport mondiale.
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Michael Jordan: "The Last Dance? Senza Phil Jackson io non avrei più giocato"

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