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"Remembering Kobe Bryant": una leggenda, mille ricordi ed emozioni

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DaEurosport

Aggiornato 26/01/2021 alle 09:00 GMT+1

Nei vent'anni trascorsi in NBA con la maglia dei Los Angeles Lakers da assoluto protagonista, Kobe Bryant ha ispirato generazioni intere di giocatori e appassionati. Anche la "Casa del Basket" di Eurosport si unisce al ricordo un anno dopo la sua scomparsa: abbiamo raccolto qui i nostri ricordi più toccanti, sperando di suscitare anche in voi le stesse grandi emozioni che abbiamo provato noi.

Kobe Bryant #24 of the Los Angeles Lakers before the game against the Denver Nuggets on March 25, 2016

Credit Foto Getty Images

Kobe Bryant: il mio idolo, il "mio capo" e quella foto con lui che ricorderò per sempre

Di Marco Mordente. Ho incontrato Kobe Bryant nell'estate del 2000. Ero sotto contratto con l'Olimpia Milano, quell'anno gestita da lui e Caputo. Strano a dirsi, ma era come se Kobe fosse "il mio capo". Suo papà Joe aveva organizzato una tournée negli States: a Chicago avremmo tenuto un camp per ragazzi, e poi saremmo volati a Los Angeles, nella zona di Long Beach, per disputare la Summer League.
Arrivati a Chicago, Kobe tiene una conferenza stampa. Aveva da poco vinto il titolo con i Lakers. Prima di entrare nel palazzo, ci sistemiamo sulla gradinata per una foto-ricordo con lui. Siamo una quindicina di persone, e ci occorre qualche istante per riuscire a posizionarci. D'un tratto, sentiamo una voce strana alle nostre spalle: "Dai ragazzi, spostiamoci qui, e facciamo un bel sorriso. Uno, due, tre".
Ci giriamo stupiti. La squadra era assieme da un paio di settimane, e ormai le voci di ognuno di noi erano note. Ma quella ci era nuova. Ed era lui, Kobe. Non ci aspettavamo che parlasse così bene in italiano. Purtroppo è stata l'unica volta in cui sono riuscito a incontrarlo dal vivo. Ho affrontato gli States con la Nazionale, ho giocato contro LeBron, Wade, Anthony, Paul, ma lui non c'era.
Sono sempre stato un tifoso dei Los Angeles Lakers, e i miei idoli sono stati Magic Johnson e Kobe Bryant. Loro due vengono prima di tutti gli altri. Di Kobe amavo la mentalità vincente, il suo spirito da grande lavoratore. Si è confrontato con il meglio per diventare LUI il meglio. Ero innamorato della sua leadership, della sua forza, e, rispetto alle altre superstar, lo sentivo più vicino a me, perché lui aveva vissuto in Italia, e perché io avevo trascorso quella decina di giorni in America conoscendo il papà e la sorella. È come se avessi toccato un pezzo della sua vita.
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Kobe Bryant, il campione che mi ha fatto ricredere: dalla presunzione alla leggenda

Di Andrea Solaini. Nel 1998 ero un 25enne prospetto di C1, e vivevo il mio inizio di carriera seguendo le orme di Michael Jordan. MJ non era il mio punto di riferimento, era qualcosa di più. Avevo per lui una considerazione divina.
All'All Star Game di quell'anno fece la comparsa questo rookie fenomenale, Kobe Bryant, presentato in maniera surreale per una matricola: aveva questa nomea di personaggio poco rispettoso, perché già convinto di essere un fuoriclasse, e il tutto veniva interpretato come presunzione. Dal canto mio, vedere un rookie che si permetteva di voler imporre di essere meglio di Jordan avendo giocato soltanto una manciata di minuti in NBA, lo fece precipitare in un'ottica del tutto negativa.
Per 15 anni non sono mai stato un tifoso di Kobe, ma quando ho rianalizzato il suo percorso a fine carriera, ho dovuto cambiare idea. Rivedendolo venti anni dopo, mi sono reso conto che quell'All Star Game non era il manifesto di ciò che non andava fatto, ma il manifesto di ciò che stava per accadere. Per me, la grandezza di Kobe è resa dal fatto che mi ha costretto a cambiare idea in maniera anche molto repentina, come non è mai successo in circostanze analoghe, con altri campioni, anche in altri sport. La sua non era presunzione. Semplicemente, lui sapeva già come sarebbe andata a finire.
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Kobe Bryant ha vinto cinque anelli in carriera, tutti con la maglia dei Los Angeles Lakers.

Credit Foto Getty Images

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Kobe Bryant, un artista inimitabile: il canestro più incredibile che abbia mai visto senza il filtro di uno schermo

Di Niccolò Trigari. Quando è uscita la notizia della morte di Kobe, stavo per entrare in cabina per commentare Fortitudo-Varese: inconsciamente, me ne rendo conto adesso, sono scappato da chi mi aveva informato e stava verificando la notizia. Non potevo accettarlo e avevo paura che non sarei riuscito a fare una telecronaca con la certezza che una simile tragedia fosse effettivamente accaduta. Nel computer la sola pagina con le statistiche della partita, la porta blindata per tenere fuori la realtà: non era un familiare, né un amico, ma era pur sempre un pezzo della mia vita di appassionato che si dissolveva.
Sono cresciuto con Michael Jordan, il migliore di quelli che ho visto, eppure Kobe ha sempre esercitato un fascino unico su di me. Quando mi è stato chiesto un episodio, un ricordo legato a lui, ho immediatamente selezionato il 15 aprile 2004. Ero per lavoro a Portland (mai stato prima, né dopo) e al Rose Garden era in programma l'ultima di regular season contro i Lakers. Non avevo mai visto una partita NBA dal vivo e in città, attesi da un popolo che (perlopiù civilmente) li detestava, c'erano Shaq & Kobe: non mi feci scappare l'occasione. Era la versione dei gialloviola con Payton e Malone (che proprio quella sera si infortunò) e mi sembrò di vincere il jackpot: tripla di Kobe per mandare la partita all'overtime, errore di Kobe e secondo supplementare, Lakers sotto di 2 a 1" dalla fine e poi il canestro più incredibile che abbia mai visto senza il filtro di uno schermo.
Del ritorno in albergo ricordo, come se lo stessi guardando da qualche metro di distanza, l'entusiasmo del bambino che si era rimpossessato del mio corpo, l'eccitazione a tratti nascosta dal timore che l'ingenua gioia del mio alter ego fosse mal interpretata dalla folla che sciamava delusa verso casa.
Kobe per me è riassunto un quell'attimo: un artista inimitabile che non ti pentivi mai di essere andato a vedere, un distributore di emozioni che, alternando sguardi truci e abbaglianti sorrisi, si è ricaricato giorno dopo giorno per 20 anni. Mi mancherà la gioia che usciva costantemente dai suoi occhi e, da padre, quello che faccio ancora più fatica a sopportare, è che il destino, non contento di punirlo per aver rubato il fuoco agli Dei del Basket, si sia dovuto prendere anche quelle povere bambine.
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Magnetico nel suo modo di essere: Kobe Bryant ha ispirato tutti noi

Di Andrea Meneghin. Quando ho sentito la notizia, mi sono sentito incredulo, e il fatto che fosse coinvolta anche la figlia ha reso tutto ancora più grave e triste. Non ho mai avuto l'onore di affrontare Kobe Bryant in campo, ma i miei ricordi da tifoso, spettatore e appassionato di pallacanestro sono ancora vivissimi.
Ricordo le emozioni che provavo durante le notti trascorse sul divano per seguire le Finals NBA, incollato alla televisione, rapito dalle sue giocate, dal suo talento, dalla sua personalità incredibile. Kobe è stato talmente grande da riuscire a ispirare tutti i giocatori di basket della sua generazione e di quella a venire, quello che ha fatto rimarrà per sempre nella storia del gioco e nella memoria di ogni appassionato.
Non credo che possa essere riassunto in una singola giocata o in un momento particolare: Kobe era magnetico per il suo modo di essere, di essere giocatore di pallacanestro in sé. Ed è un ricordo splendido.
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Kobe Bryant, l'anello tra due ere: Michael Jordan e LeBron James

Di Hugo Sconochini. Purtroppo non ho mai avuto la possibilità di conoscere Kobe Bryant dal vivo. Non l'ho mai incrociato in campo. Quando ho giocato contro la Nazionale americana vincendo quella mitica semifinale alle Olimpiadi di Atene, c'erano LeBron James e tanti altri, ma non Kobe.
I miei ricordi, quindi, sono quelli di un appassionato, che lo ha visto giocare in televisione. E mi unisco a quello che è il pensiero globale in questo momento: Kobe è stato l'anello di congiunzione tra l'era di Michael Jordan e l'era moderna, quella di LeBron James. Come giocatore è stato uno dei più forti di sempre, e il fatto che fosse emulato da tutti descrive al meglio la sua grandezza.
In questo momento il mio pensiero è rivolto alla sua famiglia. Aver perso anche la figlia è una verità durissima da accettare.
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Kobe Bryant ha vestito due numeri di maglia con i Los Angeles Lakers: ha cominciato la carriera con il #8 e l'ha chiusa con il #24.

Credit Foto Getty Images

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La grandezza non si può ignorare: il mio "Kobe Moment" nella serata a Boston da anti-eroe

Di Mario Castelli. Quando la nebbia dello stordimento generale e dell’incredulità diffusa si sarà diradata, ognuno di noi avrà un suo “Kobe moment”, che sarà diverso per ognuno e diventerà il modo con cui ci terremo legati a doppio filo a ciò a cui abbiamo assistito in tutti questi anni, affinché il suo ricordo non sbiadisca assieme alla sua morte. Il mio non sarà un suo trionfo, ma una di quelle sue sere da anti-eroe, dove più la gente sperava che fallisse e più lui provava gusto a imporre la propria supremazia.
Dicembre 2016, a ritiro già annunciato si presenta a Boston per l’ultima partita in carriera di fronte ai tifosi che l’hanno detestato più di tutti. Gioca male, salvo poi mettere a un minuto dalla fine la tripla decisiva che chiude il match. Questa volta l’ennesimo morso del Mamba viene accolto in maniera diversa dalle altre: i suoi acerrimi nemici si alzano e fanno qualcosa che non avevano mai fatto prima. Lo applaudono, urlano “Kobe! Kobe!”, rendono omaggio a chi avrebbero voluto vedere fallire più di chiunque altro e invece hanno visto gioire molto più di quanto avessero voluto.
È quasi un gesto liberatorio, di purificazione: dopo due decenni di battaglie, ci si può finalmente lasciare andare, mostrando quella stima e quell’ammirazione che fino al giorno in questione erano sempre state sepolte dalla rivalità, ma che sembravano non aspettare altro che un’occasione per poter fuoriuscire, dopo essere state trattenute fin troppo a lungo. Perché Kobe è stato questo: ha regalato emozioni autentiche a milioni di persone, non solo ai tanti che facevano il tifo per lui, ma anche a quei tifosi avversari che desideravano in ogni modo di vederlo perdere.
Quando si è di fronte alla grandezza, la si riconosce e non la si può ignorare, anzi se ne è attratti anche più di quanto si sarebbe disposti ad ammettere. Kobe impersonificava la grandezza, e i milioni di persone cui ha regalato emozioni - non importa da che parte della trincea stessero - sono gli stesse milioni di persone che ieri notte ne hanno pianto la morte, perché le scintille di passione che ha trasmesso erano ancora lì, pronte ad accendersi un’ultima volta in maniera incontrollabile.
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Dall'odio all'amore: il momento che cambiò per sempre la mia idea di Kobe Bryant

Di Daniele Fantini. In quei Los Angeles Lakers del Threepeat, il mio preferito era Shaquille O'Neal. Lo consideravo la vera star della squadra, un centro che univa la potenza fisica della vecchia NBA a rapidità di piedi, tecnica e visione di gioco della NBA moderna. Kobe Bryant passava in secondo piano. Non mi piaceva il suo modo di giocare, pieno di forzature. Non mi piaceva il carattere, quasi da stellina viziata. O da sopravvalutato. Poi, arrivò il giorno che cambiò tutto.
Eravamo nel terzo anno del Threepeat, e la faida con Shaq stava vivendo un picco di down. I due non si parlavano, raramente si guardavano in campo. Non ricordo l'avversario ma, quel giorno, Kobe sembrava in sciopero. Iniziò la partita senza guardare il canestro, passando il pallone a ogni possesso. Shaq lo bacchettava sul suo gioco accentratore, reclamando più palloni per lui in post-basso. Dal canto mio, ne aveva tutte le ragioni, e interpretai quelle strane giocate di Kobe come una ripicca da starlet frustrata. I minuti passavano, ma l'atteggiamento di Kobe non cambiava. Mai un tiro, solo passaggi. All'ennesima giocata di quel tipo, la voce di Federico Buffa mi ronzò tra le orecchie: "Ah, ok. Allora oggi solo assist, eh...". Se l'aveva detto l'Avvocato, era una verità inattaccabile.
Allora iniziai a seguire Kobe con più attenzione. Il mio disappunto si tramutava in curiosità ed estasi perché quei passaggi, in realtà, erano signori passaggi. E vidi cose pazzesche. Tiri aperti rifiutati e trasformati in linee di passaggio che soltanto lui riusciva a captare. Contropiedi gestiti al limite del surreale, con la sola ricerca degli scarichi sui rimorchi. Kobe giocava in continuo controsenso: si costruiva un tiro e lo rifiutava, creandone uno migliore per un compagno. Li imbeccava tutti, in ogni modo, con linee di passaggio impossibili. In panchina, coach Phil Jackson era una maschera di cera. I suoi Lakers giocavano completamente al contrario. Ma quei tiri costruiti da Kobe entravano. La squadra vinceva e il numero degli assist saliva.
Kobe finì il primo tempo così, a totale disposizione degli altri, come per dire: "Se voglio, posso farvi vincere anche così". I compagni segnavano, ma in realtà era lui che stava dominando il gioco a suo piacimento. Da quel momento in poi (secondo tempo di quella partita compreso), iniziai a vederlo con un occhio diverso, l'occhio di chi si è appena (o finalmente) accorto di un fenomeno.
Kobe Bryant, Palmares 2020
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Kobe Bryant, il Michael Jordan del terzo millennio: sempre con l'ossessione per Sua Maestà MJ

Di Davide Fumagalli. Avvicinarsi alla pallacanestro nella seconda metà degli anni Novanta significava imbattersi in un signore col numero 23, Michael Jordan. Tale MJ però era ormai a fine carriera e pronto a scalzarlo c'era già un certo Bryant, Kobe Bryant, la cui storia non poteva passare inosservata dato che aveva trascorso parte dell'infanzia in Italia e parlava la nostra lingua. Più di ogni cosa, questo ragazzo con la maglia numero 8 dei Lakers era ossessionato da Jordan, voleva esserne l'erede designato, raggiungerlo e poi superarlo.
Non potrò mai dimenticare l'espressione di Kobe, poi divenuto “Black Mamba”, con la faccia di chi vuole vincere a tutti i costi, essere migliore, sbaragliare la concorrenza e sbranare l'avversario come quando lo squalo sente l'odore del sangue. Questo è stato da sempre Kobe, a 18 anni come oltre i 30 anni, fino a quando ha capito che non poteva più essere il più forte di tutti: è diventato più sorridente, simpatico e “piacevole”, l'opposto del Bryant antipatico, cinico, egoista e “odiato” della prima parte di carriera. Tutto questo fuoco è stato sempre alimentato dall'ambizione, dall'ossessione di raggiungere il migliore, Michael Jordan, e di superarlo. Ha chiuso la carriera con 5 titoli NBA, uno in meno di MJ, senza dubbio il suo più grande cruccio.
Una spinta che ricordo ancor più evidente negli All Star Game, partite fatte solo per lo spettacolo e per il divertimento dei tifosi: no, per Kobe no. Come a New York, nel 1998, al suo primo All Star Game, con la ricerca continua dell'uno contro uno con Jordan, e poi nel 2003, ad Atlanta, quando si arrivò addirittura al “trash talk” tra i due, con anche una stoppata di Bryant a MJ, e la vittoria della Western Conference del giovane rampante in doppio overtime, dopo che nel primo supplementare Kobe con due liberi aveva replicato ad un canestro del 23, presumibilmente quello del successo e della perfetta uscita di scena. Non per il “guastafeste” Bryant.
E poi ci sarebbe lo stile in campo, l'essere immarcabili, l'essere decisivi nei momenti topici, il tiro in “fade away” cadendo indietro, che Bryant ha copiato in tutto e per tutto da Jordan. Già, perché alla fine dei conti, Kobe è stato e sarà l'unico vero erede di Sua Maestà MJ.
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Kobe Bryant e Michael Jordan a colloquio durante una partita fra Los Angeles Lakers e Chicago Bulls, Getty Images

Credit Foto Getty Images

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Kobe, il mio miglior nemico

Di Stefano Dolci. Sportivamente innamorato pazzo di Allen Iverson e Tracy McGrady, due superstar che non hanno mai avuto né l'ossessione per la vittoria né la stratosferica etica del lavoro, io per anni Kobe Bryant l'ho detestato. Mentre per la stragrande maggioranza dei miei amici al campetto e compagni nella squadra di basket del mio paese (i Villanova Tigers) era l'idolo incontrastato, per me era il nemico prediletto. Troppo forte, troppo vincente, troppo feroce, troppo atletico, troppo talentuoso, troppo perfetto, semplicemente troppo.
Kobe è stato la cosa più simile a Michael Jordan che sia mai vista calcare un parquet da basket. Dal 2000 al 2010 ho tifato per i Blazers, i Kings, i Twolves e i Suns (le arcirivali dei Lakers a Ovest insieme agli Spurs) ma le ho sempre viste abdicare. Mi andò meglio coi Pistons nel 2004 e coi Celtics nel 2008. Per me che parteggiavo sempre per le squadre "underdog" era un incubo. Tanti canestri, difese o prestazioni mi hanno esaltato, ma io a fare il tifo per Bryant e i suoi Lakers non ce l’ho mai fatta.
Ora però che convivo da ore con questo magone che non so nemmeno bene spiegare, capisco che, in fondo, Kobe Bryant ha significato tanto per me, ed è stato determinante nel far crescere il mio amore per il basket.
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Addio Kobe Bryant: un campione unico che ha ispirato il mondo

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