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GUERRA RUSSIA-UCRAINA, Roberto De Zerbi su Kiev: "Mi capita ancora di sentire il rumore delle bombe"

Francesco Friggi

Pubblicato 18/03/2022 alle 10:42 GMT+1

GUERRA RUSSIA-UCRAINA, Intervistato ai microfoni della Gazzetta dello Sport, Roberto De Zerbi racconta i drammatici giorni a Kiev durante l'assedio dei russi, la fuga ed il ritorno in Italia. Nella mente, dice, c'è ancora lo Shakhtar anche se si fa fatica a immaginare o sperare ad un futuro 'normale' in terra ucraina: "Non riesco a vedere più nemmeno le partite".

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La guerra continua imperterrita la sua corsa, lasciandosi dietro morti, disgrazie, sfollati e monumenti bombardati ridotti in cenere. Tanti sportivi soprattutto di cuore ucraino hanno deciso di aiutare il proprio paese imbracciando per la prima volta un fucile o organizzando spedizioni per beni di primo bisogno come cibo e medicine. Chi, invece, da quella guerra è riuscito a scappare è l'italiano Roberto De Zerbi, costretto ad abbandonare squadra e amici per fare ritorno in Italia a causa di una situazione che si faceva via via sempre più drammatica e pericolosa. L'ex allenatore del Sassuolo è stato intervistato alla Gazzetta dello Sport dove ha raccontato come sta vivendo la guerra lontano dalle mine e dalle bombe ma con un senso di impotenza incredibile:
"Guardo tutto. Dalla mattina alla sera. Non riesco a vedere altro, nemmeno le partite. Provo un grande vuoto. Sto peggio adesso dei giorni passati a Kiev sotto le bombe. Là c’era da fare: organizzare la fuga per noi e i giocatori, parlare con l’ambasciata. Qui non si può fare niente. Solo guardare. Sentire chi è ancora là".

LA SCELTA DI ARRUOLARSI

"Conosco un magazziniere e un giocatore che si sono arruolati, ma non in prima linea. A Kiev per fortuna non c’è più nessuno, siamo riusciti a spostare i giocatori nella parte occidentale del Paese. Portarli fuori purtroppo non si può: chi ha tra i 18 e i 60 anni non può lasciare l’Ucraina. Alcuni dipendenti vivevano a Irpin, le loro case sono state bombardate. Il dottore abita a Obolon, bombe anche lì".

I PRIMI SEGNALI DI GUERRA

"Da dicembre si aveva notizia dei movimenti dell’esercito russo. Ma ci rassicuravano: è tutto un grande gioco, 190mila soldati non bastano a invadere un Paese di 42 milioni di abitanti. L’ambasciata italiana però ci aveva contattato per organizzare il piano di evacuazione già da quando eravamo in Turchia".

IL GIORNO PRIMA DELLA GUERRA

"Il giorno di City-Tottenham. Dovevamo sorvolare il Mar Nero, ma c’erano esercitazioni russe. Campanello d’allarme. Arriviamo a Kiev, ci fermiamo in hotel: non sono mai tornato a casa, avevo una brutta sensazione. Lunedì 21 Putin fa quella conferenza stampa pazzesca: cinico, prepotente, dice che l’Ucraina non ha senso di esistere, riconosce il Donbass e Lugansk. Errore: l’ho visto con i dipendenti del club, tutti del Donbass e filorussi. E ora orgogliosamente ucraini. Comunque, pensavano tutti si fermasse lì. Il mattino del 23 facciamo allenamento, mica tanto tranquilli: in ufficio avevamo una mappa con le linee evidenziate per il tragitto da fare, verso la Polonia, la Slovacchia e la Romania. Alle 17 arriva un messaggio audio dall’ambasciata italiana: lasciare urgentemente il Paese. Ribadito da un whatsapp delle 20.27.
Chiamo il d.s. Srna. Dario, ci dicono di andare via. Avevamo le nostre macchine, la mia l’avevo portata a settembre, è ancora là. Gli dico che però non possiamo partire così, dobbiamo dirlo ai brasiliani, con cui già ad Antalya ci eravamo riuniti perché c’era preoccupazione. Io avevo preso posizione con loro: se volete andatevene, ma finché non sospendono il campionato io resto qua. Mi ero preso una responsabilità nei loro confronti. Srna mi tranquillizza: al 70% sabato si gioca a Kharkiv. Perfetto. Andiamo a dormire in hotel. Alle 5 del mattino ci svegliano le esplosioni".

LA PAURA E LA FUGA

"In realtà non ero preoccupato che un razzo colpisse l’hotel. Nei primi giorni gli obiettivi erano militari. La mia paura era la fuga. Da Kiev c’è una sola strada che porta a ovest, e al mattino c’erano già 70-80 km di coda. I benzinai avrebbero finito le scorte, mangiare e bere sarebbero finiti. Il rischio era stare 3 giorni in coda, come ha fatto Fonseca, sul pullman con cui è partito il giorno dopo. Il rischio era che se non morivi di bomba o di fucile, rischiavi di morire di fame, di sete, di freddo. Così abbiamo convinto i brasiliani a non partire subito. Siamo rimasti chiusi in hotel da giovedì a domenica, dormendo al piano -1 dell’hotel, un centinaio di persone con i materassi in terra. Due-tre ore a notte. Vestiti. I brasiliani sono partiti sabato con mogli, figli, famiglie. Appena prima del coprifuoco. Il saluto con loro è stato un momento emozionante. Io e il mio staff siamo stati dei fratelli maggiori.
Alle 12 di domenica ci dicono che alle 13-13.30 ci sarebbe stato un treno con un vagone libero per portarci a Leopoli. Bagagli fatti in 10’. Andiamo via con un trolley piccolo e un po’ di scorte da mangiare e bere. Vengono tre militari a prenderci in hotel, ci scortano in auto, con i fucili spianati. La città vuota. In stazione aspettiamo un’ora sotto una tettoia di fianco ai soldati. Ci facciamo 9 ore per Leopoli. Lì, un casino mai visto: persone che arrivavano da ovunque, tanti stranieri. Prendiamo un pulmino con la gente che cerca di infilarsi dentro per scappare. Ci portano via subito, verso l’Ungheria: 6-7 ore per arrivare alla frontiera. Alle 5 di mattina ci portano in un ristorante per fare colazione aspettando che fosse disponibile il passaggio in Ungheria. Da lì ci prende il pulmino del Ferencvaros e ci porta a Budapest, in aeroporto, in volo per Bergamo".

LA GUERRA DALL'ITALIA

"A me ha dato fastidio che non abbiano permesso agli atleti paralimpici russi di gareggiare a Pechino: hanno un’occasione di riscatto ogni quattro anni e gliel’hanno tolta. E poi vedere che il campionato russo continua mi fa ribollire il sangue. Dinamo Mosca e Sochi erano nel nostro hotel ad Antalya. Loro giocano e noi siamo bombardati. Non è giusto. E nessuno dei grandi nomi dello sport russo si è espresso contro la guerra. Esporsi a volte è un dovere. I brasiliani sono depressi, vorrebbero giocare. Qualche club mi ha chiamato per averli: mi ha dato fastidio. Ho avvertito i ragazzi: non sbagliate a firmare quando i vostri compagni sono sotto le bombe. Vi comportereste male. Ok mister, mi hanno risposto".
E nessuno dei grandi nomi dello sport russo si è espresso contro la guerra. Esporsi a volte è un dovere.

IL RICORDO DELLO SHAKHTAR

"Eravamo primi a 12 giornate dalla fine. Se ci dessero il titolo a tavolino, non lo vorrei. Lo avremmo vinto sul campo, il campionato. Per anni. In Turchia finalmente cominciavo a vedere il frutto del lavoro, a dirmi “che squadra”. Avevo pure iniziato a pensare come migliorarla ulteriormente. E da un giorno all’altro si è sfasciato tutto. Questa cosa mi distrugge. non li avevo capiti, perché ero immerso nel calcio. Freddi, chiusi, diffidenti. Ma questa guerra mi ha fatto capire il loro orgoglio, la loro dignità. Hanno la libertà da 30 anni, difendono valori che noi diamo per scontati.
Ho sentito dire che Zelensky si doveva arrendere subito perché così porta il popolo al massacro. Ma gli ucraini, tutti, combatterebbero pure se Zelensky si fosse arreso, sarebbero ancora lì a combattere. E poi chi dice così dà alla libertà, alla dignità, all’orgoglio, all’appartenenza un valore scontato, dimenticando che qualcuno lo ha fatto per noi tanti anni fa. Mi capita ancora di sentire il rumore delle bombe. E anche degli aerei".
Mi capita ancora di sentire il rumore delle bombe. E anche degli aerei.

IL RINGRAZIAMENTO

"Ceferin ha organizzato tutto in collaborazione con la federcalcio ucraina. E in costante contatto con il presidente Gravina. E voglio menzionare anche Evelina Christillin, che si è adoperata da morire, e Stefano Bonaccini".
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