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Il mito dell’Hajduk Spalato, il club che disse no alla Figc, a Tito e ai soldi dei mecenati esteri

Zoran Filicic

Aggiornato 28/10/2020 alle 15:33 GMT+1

Zoran Filicic, telecronista di Eurosport, ogni settimana ci racconta una storia legata agli sport che più ama dal suo punto di vista: fra flashback, esperienze sul campo e un excursus tra i grandi delle discipline più amate, un punto di vista nuovo da leggere ogni 7 giorni. Quinto appuntamento con il calcio e il mito dell'Hajduk Spalato, la squadra del no.

La tifoseria dell'Hajduk Spalato, una delle più calde fra le squadre delle Repubbliche Balcaniche, Getty Images

Credit Foto Eurosport

La costa dalmata, mare blu e scogli bianchi, costa dall’estate torrida, dai movimenti lenti. Split. Spalato è la città che ha prodotto, al mondo, più atleti olimpici e col maggior numero di medaglie pro capite, per un totale di 74.
Tra gli olimpionici spalatini troviamo Jerkov e Krstulovic, oro nel basket, Toni Kukoc (poi miglior sesto uomo NBA nei Bulls di Michael Jordan) e Dino Radja (poi Boston Celtics), nel tennis Mario Ancic e Goran Ivanisevic, unico a vincere Wimbledon partendo da wild card, oltre a due medaglie di bronzo a Barcellona. Poi Blanka Vlasic e una sequenza interminabile di giocatori di pallanuoto e, argento a Helsinki 1952, Vladimir Beara.
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Vladimir Beara, il portiere che Lev Yashin riteneva il miglior interprete del ruolo, Imago

Credit Foto Imago

I portieri più forti del mondo

La leggenda Lev Jashin durante la sua premiazione come miglior portiere europeo disse: “per me il migliore è Beara”. Era uno dei migliori al mondo ma non visse l’epoca della televisione e le sue acrobazie entrarono prima nei racconti, poi nell’immaginario e infine nella leggenda. Sui calci di punizione non faceva piazzare la barriera, per vedere in faccia l’avversario, ai Giochi di Helsinki, parò un rigore in finale ad un signore ungherese che di cognome faceva Puskas.
Beara fu il portiere dell’Hajduk Spalato degli anni d’oro, dal 1955 al 1960 ma quando dopo aver vinto tre campionati si trasferì alla Stella Rossa di Belgrado, per gli spalatini fu un tradimento e, una volta tornato a casa molti gli tolsero la parola. Perché? perché “non è solo una squadra di calcio” ma quante volte abbiamo sentito o letto questa frase? E perché con l’Hajduk dovrebbe essere diverso?

Fuorilegge

Hajduk significa bandito, fuorilegge, quelli che nei Balcani combattevano l’esercito Ottomano e si frapponevano tra la popolazione e i Turchi. La scelta del nome non arriva a caso, in quella birreria di Praga il 13 febbraio del 1911, quando un gruppo di giovani di Spalato decide, dopo aver assistito a Slavia-Sparta, di fondare una squadra: Hrvatski Nogometni Klub (Società Calcio Croata) Hajduk Split.
La prima partita si giocò contro la Calcio Spalato con vittoria dell’Hajduk per 9:0, fu solo la prima di una lunga serie di vittorie che portarono alla squadra dalmata 9 campionati Jugoslavi e 6 titoli Croati, oltre allo stesso numero di coppe nazionali mentre in campo internazionale raggiunse tre volte i quarti di finale di Coppa Campioni, una volta la semifinale di Coppa Uefa ed una volta quella di Coppa delle Coppe ma la parte importante della storia del club sono state le scelte, sempre controcorrente.
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La Torcida, il cuore del tifo dell'Hajduk Spalato, Imago

Credit Foto Imago

Per amore e per dispetto

Molti affermano che il binomio Hajduk/Spalato sia la simbiosi più stretta tra squadra e città che esista al mondo. A Spalato ad ogni angolo c’è un graffito, in ogni macchina un gagliardetto ma è l’anima stessa della città ad essere incarnata dai Bili, i Bianchi, come viene soprannominata la squadra.
Spalato è un crocevia di mare, per indole gli Spalatini sono una via di mezzo tra Marsigliesi (per la sfrontatezza) Napoletani (per la fantasia) e Livornesi (per l’arguzia), mettete insieme queste caratteristiche e avrete una immagine abbastanza veritiera dell’abitante di Split. Una città che, quando il matto del paese, convinto di essere Caruso, disse di dover andare in America, gli organizzò la partenza dal porto, su un traghetto di linea, con saluto della municipalità. Una volta salpata la nave tutti tornarono alle loro occupazioni mentre il povero Caruso venne lasciato sull’isola di fronte. Che squadra poteva avere, una città cosi? Che altro motto poteva avere se non “iz ljubavi, iz dispeta”? Per amore, per dispetto?

La squadra del no

Una società nata a rappresentare la città più anarchica (in senso generale) della costa non poteva piegarsi alla volontà del regime e con la seconda guerra mondiale arrivano i primi due “no”, clamorosi.
Con l’occupazione fascista la federazione italiana desidera far giocare l’Hajduk nel campionato italiano, per tutta risposta la società smette la propria attività per poi rifugiarsi in clandestinità, con giocatori e dirigenza, sull’isola di Vis sotto controllo alleato. Nel 1943 rifiuta anche le richieste del regime Ustascia di Ante Pavelic di giocare nel campionato croato.
Nel 1944 diventa la squadra dell’esercito Jugoslavo di Liberazione col nome Hajduk-NOVJ mentre nel 1945, durante una partita in Libano, viene insignita dal Generale De Gaulle del titolo di “Squadra onoraria della Francia libera”. Una squadra, un simbolo non più per la città ma per lo stato intero, un simbolo che il Maresciallo Tito vuole elevare a squadra dell’esercito della neoformata Repubblica (o dittatura) e portarla a Belgrado. Un onore, ma lasciare Spalato? diventare simbolo di altri? L’Hajduk Spalato dice per la seconda volta no, e cresce insieme al proprio mito.

Le rivalità

I grandi avversari dell’Hajduk sono la Dinamo Zagabria, la Stella Rossa e il Partizan Belgrado e i campionati si giocano tra queste quattro squadre. Nel 1950 si arriva alla partita che avrebbe deciso il campionato tra Hajduk e Stella Rossa, si gioca a Spalato e un gruppo di tifosi, ammaliati dalle testimonianze del tifo sudamericano visto ai Mondiali in Brasile, decidono di dare qualcosa in più alla squadra, di aiutarla dagli spalti e fanno sul serio. Il 28 ottobre 1950 nasce la Torcida, il primo gruppo di tifo organizzato in Europa, una rivoluzione. Entrare allo stadio di Poljud e sentire la Torcida, insieme allo stadio intero, intonare “Dalmacijo” fa venire i brividi, allora come oggi.
Passano gli anni, continuano le rivalità, soprattutto tra Hajduk e Dinamo mentre i loro tifosi, Torcida e Bad Blue Boys, stringono una sorta di fratellanza spalleggiandosi contro le due tifoserie di Belgrado, la crisi jugoslava si sta avvicinando ed arriva il momento dell’ultima partita, ancora una volta Stella Rossa-Hajduk. Si gioca a Belgrado e la Zvezda ha appena vinto la Coppa dei Campioni ma il campionato è un’altra cosa e in uno stadio teso, tesissimo, i tifosi dell’Hajduk festeggiano la vittoria con gol di Boksic. Un mese dopo si gioca Hajduk-Proleter ed è l’ultima partita di Spalato nel campionato Jugoslavo, è il 1991.

Il ritorno alle origini, scacchiera e scuola calcio

Nel 1945 la scacchiera biancorossa croata contenuta all’interno dello stemma dell’Hajduk era stata sostituita dalla stella rossa comunista ma arriva il momento di ritornare alle origini e, dopo le difficoltà del conflitto e la riorganizzazione dei campionati, bisogna ripensare la società, attingendo dalla tradizione.
Nelle file dell’Hajduk crescono da sempre talenti e si crea la scuola di Split, dal vivaio dei Bili escono Boksic (Olympique, Lazio, Juventus) Jarni (Torino, Juventus, Real Madrid), Bilic (West Ham, Everton), Stimac e Tudor (Juventus) e il settore giovanile si struttura in Accademia, arrivando a festeggiare nel 2019 i 100 anni della creazione della scuola giovanile calcio. I giovani e l’apprendimento sono nel DNA della società, che nella sua “visione” e nei propositi etico sportivi contenuti all’interno del proprio statuto dichiara che “HNK Hajduk è un collettivo sportivo, sempre in lotta per la vittoria, fonte di giocatori di qualità per le leghe europee”.
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Il calore dei tifosi dell'Hajduk Spalato in trasferta in Coppa Uefa nel 1997/98, Getty Images

Credit Foto Getty Images

Non è un passaggio da poco poiché nell’epoca della commercializzazione del calcio e della vittoria ad ogni costo arriva il momento della grande decisione: vendere agli investitori stranieri o rimanere se stessi? La società, la città e la tifoseria non hanno dubbi: Hajduk non si vende, e arriva il terzo grande no: quello ai soldi esteri. Non arrivando i capitali si aprono invece le porte della società all’ingresso dei tifosi e dei privati, i fondi (pochi) si reperiscono in loco. Ci si rende conto che in questo modo non si potrà lottare per posti di rilievo in Europa, sarà difficile anche in campionato contro il potere della Dinamo Zagabria ma si salva l’orgoglio e la terza maglia della squadra porta impressi i nomi, ton sur ton, di tutti i soci e dei donatori della società.
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Un tifoso mostra fiero il tatuaggio dell'Hajduk Spalato, Getty Images

Credit Foto Getty Images

Il fascino della verità, della sconfitta

Non si vince più come prima, ma i fan club si moltiplicano, in Croazia e all’estero. Si soffre e si perde ma lo stadio è pieno, canzoni e graffiti riempiono le strade. Una sera di pochi anni fa, in un piccolo paese sull’isola di fronte a Spalato, in un ristorante all’aperto si sentiva l’eco della telecronaca di una partita di preliminari di Champions. Non ricordo contro chi giocasse l’Hajduk ma ad un certo punto si senti un boato; stavo parlando col cameriere, un giovane magro amante degli scacchi e dei libri e al vedere il suo sussulto gli dissi “abbiamo segnato”. “Impossibile” rispose, e dopo un attimo di silenzio aggiunse: “sai, quello per l’Hajduk non è tifo, è diverso. Noi tutti quando siamo piccoli conosciamo l’Hajduk e per una qualche ragione ne veniamo rapiti, irrimediabilmente, poi col tempo sviluppiamo la Sindrome di Stoccolma e non ne possiamo più fare a meno”. Rimanemmo in silenzio un paio di secondi, lunghi, poi con finta nonchalance Stipe si assentò per vedere se (magari, non si sa mai) fosse stato un gol dell’Hajduk.
Vinsero gli altri, ma ancora una volta gli spettatori si salutarono con le parole Hajduk zivi vjecno, l’Hajduk vive in eterno, e ancora una volta cantarono “Dalmacijo”.
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