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L'ironia dell'idolo Gabor Kiraly, il portiere in tuta: "Io, a Euro 2016 a 40 anni e in pigiama"

Stefano Fonsato

Aggiornato 17/11/2015 alle 18:39 GMT+1

Il mitico portiere dell'Ungheria racconta in eslcusiva a Eurosport la tanto sospirata qualificazione dei magiari alla soglia del record personale e assoluto di presenze: "Certi limiti si superano solo col duro lavoro". Una retrospettiva della sua carriera infinita: "Gli anni del magico Hertha mi sono rimasti nel cuore come il Crystal Palace e il Monaco 1860. Ma dovevo tornare tra la mia gente".

Gabor Kiraly

Credit Foto Imago

A Budapest e in tutta l'Ungheria i bagordi non sono ancora finiti. E chissà per quanto tempo proseguiranno. D'altra parte, l'impresa della selezione magiara è di quelle che segna un'epoca. O, meglio, che ne chiude una "nera", per tutto il movimento, lunga 30 anni. Tanto è stato il digiuno dal grande calcio, da quel Mondiale di Messico '86 (Belgio '72 è stato, invece, l'ultima a un Europeo), per una terra dalla tradizione calcistica innata, una nobile decaduta improvvisamente poco dopo la metà del secolo scorso, senza un vero motivo. Nessuno è mai riuscito a spiegare il passaggio dalla gloria calcistica (Puskás, l'imbattibile Honvéd, la coppa iridata sfiorata contro l'Italia nel '38 e i tedeschi a Svizzera '54), al buio improvviso: è sufficiente appellarsi alla rivoluzione antisovietica a cui diversi campioni di quella generazione parteciparono a scapito del calcio? E dopo? Come giustificare un simile di generazioni pallonare di livello? Dura capirci qualcosa: si incontra la stessa fatica nel trovare spiegazioni al ceppo linguistico magiaro, diverso da tutti, nemmeno indoeuropeo. Tanto che, per dire Italia, loro dicono Olaszország, forse (e si sottolinea la parola "forse") perché Olassz è una lontana derivazione di "Vladi", i Celti che abitavano in tempi antichi il Nord Italia. I loro misteri, chiusi nei loro confini: un governo ultranazionalista che dall'Europa fa di tutto per tenersi ben distante. Così vicina, eppure così lontana, l'Ungheria continua a vivere in un mondo tutto suo.

Un "Re" da leggenda

Quell'Europa ritrovata proprio grazie ai 180' di spareggio contro la Norvegia, in cui la selezione rossobiancoverde ha sovvertito ogni pronostico. Grazie a gruppo compatto (non più giovanissimo) e un veterano d'annata, un campione dalle memorie antiche, sia dentro che fuori dal campo (ma non chiamatelo "nonno"), Gábor Király. Il suo cognome in ungherese significa "Re" e lui, in questo momento, è il vero Re degli Unni. Altro che Attila. Classe 1976, si presenterà al prossimo Europeo a 40 anni suonati: di fronte ai norvegesi, sia ad Oslo che a Budapest, ha chiuso letteralmente la saracinesca. In nazionale è arrivato a 100 presenze: gliene mancano solo due per superare il record della leggenda della Honvéd József Bozsik...

In giro per l'Europa... in pigiama

Stranezza, talento ed originalità, si diceva dei magiari: ebbene, Gábor è la sintesi di tutto ciò. E' il portiere che ti nega la gioia del gol con un pigiama grigio, come quei pantaloni "bracaloni" che indossa da giovanissimo, a metà degli anni '90: "La prima volta - spiega IN ESCLUSIVA a Eurosport Italia - li misi prima di andare a giocare in giro per l'Europa. Ero nella squadra della mia città, l'Haladás di Szombathely. Avevo esordito nella massima serie ma non stavamo andando un granché bene. Durante un match di campionato non potei indossare i classici calzoni neri e stretti da portiere e negli spogliatoi ne trovai un paio larghi e grigi. Quella partita parai l'impossibile, la squadra vinse, lo fece otto volte di fila. E da lì decisi che la mia mise non sarebbe mai più cambiata". E così fu, in giro per l'Europa: prima l'Hertha Berlino. Quella di bomber Ali Daei, ve la ricordate? "Che squadra fu quella... - manda in dietro le lancette della memoria, Gábor -. Fu tutto così emozionante: era il 1997, ero giovanissimo, avevo 21 anni e, soprattutto, ero il primo portiere ungherese a giocare in Bundesliga. Sentivo molto la responsabilità ma poi pensai: o la va o la spacca. È andata. E anche molto bene: è a Berlino che, in qualche modo, diventai bravo e famoso". Era quello storico Hertha che nel 1999-2000 approdò in Champions e si qualificò al secondo turno dopo aver battuto (ed eliminato) all'Olympiastadion il Milan, per 1-0. Király, anche in quell'occasione, si superò. Con lui, l'inseparabile connazionale, il centrocampista Pál Dárdai, ora 39enne allenatore dei capitolini ma, fino allo scorso luglio, timoniere della nazionale magiara a cui ha saputo imprimere il ritmo-qualificazione con 14 punti in 7 gare disputate, prima di lasciare il posto all'attuale ct Bernd Storck, tedesco, presosi più di qualche merito non proprio suo. La prima avventura tedesca di Király durò ben 7 anni. Poi l'Inghilterra, Londra, e il suo Crystal Palace. Altre prestazioni memorabili (i tifosi dell'Arsenal se lo ricordano bene) e, dopo le fugaci esperienze con West Ham, Aston Villa e Burnley, ecco di nuovo la Germania e il Bayer Leverkusen, che però lo girò subito al Monaco 1860, l'altro grande amore della sua vita: 168 presenze e 124 gol subiti, una media che invidiabile è dir poco.
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Kiraly

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Da Szombathely a Szombathely: un cerchio che si chiude

"Einmal Löwe, immer Löwe", gli ripetono come un mantra i tifosi bavaresi: "Leone rampante per sempre": nella monaco biancoceleste Gábor fece dal 2009 al 2014. E, dopo essere andato al Fulham a fare da chioccia, il romantico ritorno all'Haladás di Szombathely, poco meno di 80mila abitanti sul confine occidentale con l'Austria, dove indossò per la prima volta quei bizzarri pantaloni: "Il mio cuore è sempre stato qui, tra la mia gente, la mia famiglia: dovevo restituire qualcosa a chi mi aveva dato tanto e così ho fatto". Fino ad arrivare all'altra sera, quella della "Groupama Arena", stadio avveniristico di Budapest, costruito in pochi mesi nel 2013 e che ha sostituito lo storico Népstadion (il "Ferenc Puskás"), quello delle leggende degli anni '50, ora destinato alla demolizione. Dopo l'andata ben giocata ad Oslo, intelligentemente vinta per 1-0, una prova assolutamente da superare, una volta per tutte, di fronte ai propri tifosi: "Non potevamo fallire - sottolinea Király - e siamo andati in campo aggressivi, senza il pensiero di dover difendere il vantaggio acquisito in Norvegia. Si dice che con l'età si diventi più equilibrati come uomini ma, posso garantirvi, vivere un'emozione del genere alla soglia dei 40 anni è qualcosa di indescrivibile". Lui, il grande veterano, di una squadra composta da giocatori anch'essi fatti e finiti. Tranne due, che a breve risulteranno due autentici affari di mercato: il mediano classe '95 Adám Nagy del Ferencváros e l'ala mancina László Kleinheisler ('94), il man of the match della gara di Oslo, a segno nella partita del suo debutto: "Abbiamo lavorato tantissimo per questo traguardo, lo abbiamo voluto tantissimo - chiosa Király -. Ce lo siamo meritati".
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Gabor Kiraly

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"L'Italia di Buffon? Meglio continuare a festeggiare..."

Ora si guarda avanti: e se fosse l'Italia del suo collega Gigi Buffon uno degli avversari a Euro 2016? "No, per ora non ci sto pensando, come potrei? Qui tutti ci stiamo godendo la festa. E chissà per quanto ancora lo faremo... - se la ride Gábor -. Quanto a Buffon, Gigi è grande in tutto: come campione, persona, uomo di sport. Posso dire di aver avuto la fortuna di affrontarlo tantissimo tempo fa, in un match tra nazionali Under 21". Guardandosi alle spalle, qual è stata la parta più bella della carriera: "Ogni parata è importante in egual modo. Però una volta, all'Hertha, durante un'amichevole estiva ho fatto gol direttamente su calcio di rinvio: ebbene, posso dire che quella sensazione è stata unica nel suo genere".

Quel silenzio rispettoso e commosso

Tornando alla qualificazione a Euro 2016, sarebbero ancora tanti i temi di attualità da toccare con Gábor: dagli eventi di Parigi, alla scomparsa del collega e stretto amico Márton Fülöp, scomparso pochi giorni fa per un male incurabile. Non ne parla: rispetto, compostezza e profonda commozione prendono il sopravvento. Un silenzio che, per un uomo come lui, vale più di mille parole.
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