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Italia-Spagna: penosi per un’ora, ma per fortuna il calcio non è il basket

Roberto Beccantini

Aggiornato 07/10/2016 alle 08:04 GMT+2

Italia-Spagna ci ha spalancato gli occhi. Siamo scesi, definitivamente, dalla giostra europea per calarci nel labirinto mondiale. Ridurre l’intera analisi alla discussione del 3-5-2 non credo che sia la terapia corretta.

De Rossi esulta dopo il gol con la Spagna (2016)

Credit Foto LaPresse

Se fosse stata una partita di basket, la Spagna avrebbe chiuso il primo tempo avanti di una ventina di punti. Ma il calcio è un altro sport e, a volte, un’altra cosa. Penso alla papera di Buffon, i cui piedi sono sempre stati la sua croce fin dalla sera del Bertolacci leccese. E così il pareggio è grasso che cola, in barba al possesso palla (63% loro, 37% noi) e all’unica palla-gol concessa (a Vitolo, ancora lui, sullo 0-1).
Il 27 giugno, a Parigi, non andò proprio così: di quel giorno, e di quella vittoria, gli azzurri riproponevano ben nove titolari; le furie, sette. Diversi, gli allenatori: Ventura non è un martello come Conte; e Lopetegui è più incudine di Del Bosque, un tipo che ha impaginato la storia degli altri.
Al Mondiale in Russia va la prima di ogni gruppo, e ignoro quanto potrà giovarci questo 1-1. Di sicuro, visto come si era messa la partita, ci fa comodo. Le rinunce a Candreva e Verratti erano segnali che spiegavano l’atteggiamento più di qualsiasi catechismo: lasciare che fosse la Premiata Sartoria Iniesta a ricamare il match, nella speranza che perdesse l’ago o il filo. Per un’ora, non l’ha mai perso. Ma la Spagna di Diego Costa (o di Morata) è «anche» questa, una squadra che ti spinge alle corde, salvo non mandarti al tappeto per eccesso di scherma, forse di arroganza.
Attorno a Barzagli (che attributi) e Romagnoli (buon debutto), i nostri meriti sono stati quelli di non avvilirci per la polvere che alzavamo. Non un fraseggio superiore ai due passaggi, non un contropiede, nemmeno lo straccio di un corner. Eder e Pellè abbandonati, Montolivo k.o., il centrocampo occupato militarmente dal pressing degli avversari. In parole povere: un catenaccio senza finestre, una pena indicibile.
Male l’arbitro (manca il secondo giallo a Sergio Ramos, come minimo), ma noi peggio, molto peggio. Fino, almeno, alla frittata di Buffon, al gol di Vitolo e all’ingresso di Immobile (soprattutto) e poi di Belotti. Ecco: come piccoli kamikaze, si son fatti saltare in aria con quello che restava, e quasi quasi buttavano giù il risultato. Il rigore di De Rossi, propiziato da Eder, fin lì una mummia (come Pellè, come Parolo, come tanti altri), appartiene alla lotteria degli episodi che talvolta bacia l’ultimo che capita.
Se i 38 anni di Buffon sono un azzardo, lo sapremo strada facendo: e comunque ci sono Perin e Donnarumma. Il problema rimane la personalità, merce rara. Ventura è a metà del guado, che per un ct rappresenta la posizione più scabrosa. Da una parte, le rughe e il logorio del nucleo storico; dall’altra, le fregole dei giovani. A quando la sintesi? Non certo in Macedonia, domenica.
Italia-Spagna ci ha spalancato gli occhi. Siamo scesi, definitivamente, dalla giostra europea per calarci nel labirinto mondiale. Ridurre l’intera analisi alla discussione del 3-5-2 non credo che sia la terapia corretta.
E allora, per favore, un po’ di coraggio: nel gioco e nelle scelte. Almeno questo. Il catenaccio dell’Italia non è stata una scelta, è stata paura
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Video: Ventura credeva in Romagnoli
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