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Federer, Nadal, Murray: la (difficile) arte di saper dire "basta"

Federico Ferrero

Aggiornato 24/04/2024 alle 20:42 GMT+2

TENNIS - Il mondo del tennis - e non solo - segue col fiato sospeso gli ultimi tornei della leggendaria carriera di Rafa Nadal. Come anche quelli di Andy Murray. La domanda è la sempre la stessa: esiste un momento "giusto" per dire basta?

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Tra le questioni su cui ho cambiato idea, negli anni, c’è quella intorno al tema di saper dire basta. Credo che la faccenda, nello sport, sconti un problema di fondo: un atleta famoso, un campione, ha una dimensione pubblicistica inevitabile. Anzi, in parte è tale proprio perché esiste un pubblico – che, ormai, è il mondo – e ci sono aspetti della sua attività che non possono non tenerne conto. La grandissima parte di noi può smettere di lavorare, se ne ha l’occasione, cambiare vita o mestiere senza dover dare spiegazioni ad alcuno. Quando sei un campione, intorno a te cresce una famiglia allargata a dismisura, fatta di gente a te sconosciuta e per cui, invece, tu sei uno di casa, spesso pure un modello, un idolo. Un fratello famoso cui ispirarsi e per cui spendere emozioni – e sì, pure dei soldi. Insieme al portato di gloria e di denaro che l’essere popolare, cioè caro al popolo, comporta, lo sportivo professionista di successo è costretto a cedere un minimo di sovranità sulla propria vita. Come Totti non poteva girare per la sua città senza essere preso d’assalto, ci sono tanti posti al mondo (non casa sua, là sussiste una forte cultura dell’inviolabilità della riservatezza e dello spazio vitale) in cui Federer non si può – tuttora - permettere di entrare in una pizzeria senza diventare il centro dell’attenzione generale.
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Ma non è di questo che volevo parlare. Ero adolescente quando Bjorn Borg, ai tempi un consunto e rinsecchito trentacinquenne (oggi fa ridere, no? A quell’età, ora, sei un ragazzo al più maturando) decise di riesumarsi da un ritiro avvenuto molto presto, a 26 anni, e chiese una wild card per il torneo di Monte Carlo. D’accordo, quella volta andò davvero tutto storto: in una sorta di sindrome di Peter Pan mischiata con una anacronistica ottusità nel riprendere il tennis nel 1991 da dove lo aveva lasciato nel 1982 – tecnicamente, a Monte Carlo 1983, ma era già fermo da un anno – Borg si ripresentò con lo stesso completino, la stessa fascetta, la medesima racchettina di legno nera. Il gioco, frattanto, aveva cambiato era geologica e Jordi Arrese, noto solo per aver vinto la medaglia d’argento a Barcellona ’92, gli fece fare la figura del dopolavorista. Voi non lo saprete ma, sui giornali, si scatenò un ampio dibattito: la tesi più vicina al sentire della gente era che no, Bjorn Borg non potesse compiere sacrilegio sulla sua carriera. Non si poteva permettere di ripresentarsi in quelle condizioni a un torneo professionistico che aveva dominato giocando quasi in ciabatte, e farsi prendere a calci nel didietro dal primo palleggiatore di passaggio in tabellone. Lo svedese provò a replicare che non stava facendo del male a nessuno e che a lui andava bene così. Anche perdere contro giocatori in penombra. Se vi ho incuriosito, la storia finì con Borg che esaurì la pazienza degli organizzatori, che pian piano iniziarono a rifiutargli le wild card di stima inizialmente profferte con generosità. Tentò di allenarsi di più, accettò di posare quel legno secco e si armò di una racchetta moderna. Giocò anche qualche buon match con tennisti nei primi 100 del mondo, arrivò vicino al successo contro il defunto talento russo Alex Volkov (pace all’anima sua, ha vissuto gli ultimi anni in sofferenza) e poi, nel 1993, decise di smettere per sempre.
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Nadal e il suo "ultimo ballo"

Credo abbiate capito dove conduce il discorso: da un re del rosso all’imperatore della terra, Rafa Nadal. Sul quale pende un giudizio di piazza – quella del tennis, che si suppone un po’ meno becera di quella calcistica, ma sempre piazza è – in queste settimane di “ultima danza”, di ritorno alle competizioni per quella che dovrebbe essere l’ultima volta. Una parte dei tifosi dello spagnolo ha assunto una posizione massimalista: Nadal non sarà mai più quello di una volta, neppure il giocatore che si fece addormentare un piede pur di giocare la finale al Roland Garros 2022, e allora non ha senso provare, pervicacemente, a ritrovare la magia persa. Tanto vale arrendersi al ticchettio dell’orologio e ai segnali, ben evidenti, da parte di un corpo che non riesce più a tollerare per lungo tempo lo stress implicito nell’attività di altissimo livello. Poi, c’è una fascia di speranzosi più possibilista: va bene, Rafa sta per compiere 38 anni e, dalla fine del 2022, non è più stato bene, si è sottoposto a un’operazione piuttosto seria per riparare un danno allo psoas sinistro. A gennaio, a Brisbane, la lotta contro Thompson ha riacutizzato il dolore in quella zona e, salva l’esibizione pro-Netflix contro Alcaraz, è riuscito a tornare in campo solo nel suo stadio, a Barcellona. Per battere, più di intimidazione per il suo status che non per brillantezza agonistica, Flavio Cobolli e poi cedere, di schianto dopo la lotta nel primo set, ad Alex De Minaur. Un avversario che, sulla terra, contro il vero Nadal faticherebbe ad arrivare a tre in ogni set. Nelle parole di Nadal, dopo un esplicito addio al torneo catalano, restano Madrid e Roma come tappe di avvicinamento, giusto per provare a completare qualche altro match di livello, al Roland Garros. Dove è pronto a dare tutto: e cioè anche a rischiare di farsi ancora male, pur di giocare ancora una volta il torneo che lo ha reso immortale.
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Il fatto è che il finale di una carriera, anzitutto, se lo sport che pratichi è individuale non può quasi mai somigliare a ciò che vorresti. Non hai una squadra che ti porta a disputare una partita importante e, magari, un allenatore che ti butta in campo a dieci minuti dalla fine per dare un senso e una condivisione pubblica a un momento difficile come l’addio. Pete Sampras ebbe il coraggio e la fortuna di azzeccare uno Us Open francamente irripetibile, nel 2002. Negli spogliatoi, lo chiamavano “dead man walking” perché aveva preso a perdere più o meno contro chiunque, regalando motivi di riconoscenza eterna ad avversari che avrebbero potuto raccontare, per la vita, che loro avevano sconfitto il grande Sampras. Dopo la finale vinta contro Agassi, però, il capolavoro di Pistol Pete consistette nel saper dire no. All’entusiasmo di un successo insperato e ritrovato, alle lusinghe degli sponsor che lo avrebbero voluto vedere competere per chissà quanto altro tempo ancora. Sampras vs Agassi vendeva come Federer vs Nadal. Lo statunitense capì che un fuoriclasse come lui non poteva che perderci, a sfidare ancora la sorte dopo essersi già fatto maltrattare per mesi dalla stampa e dagli appassionati, sconcertati nell’osservare un fenomeno ormai svuotato di energie e di risorse.
Sampras pescò un jolly rarissimo. Andre Agassi, pure lui terminò agli Us Open, ma in un mesto terzo turno contro un qualificato. Azzeccò il momento dell’annuncio (Wimbledon, «perché è qui che è cominciato il tennis») e, ovviamente, il palcoscenico di addio. Semplicemente, non aveva più il gioco per sostenere ambizioni pari al suo nome. Ne prese atto, fece un breve e bellissimo discorso di addio in campo, e andò bene così. Federer? Beh, non si può sapere. Perché il finale di carriera di Roger è stato scombinato, se non stravolto, dal Covid. I gemelli Bryan, per la stessa ragione, non sono neanche riusciti a dare l’addio in campo; Federer sì, ma venendo molto a patti con la realtà: solo in doppio, e nella sua esibizione, la Laver Cup. Al di là della pandemia, nel caso dello svizzero c’era un ginocchio, consumato dagli sforzi e infortunato in maniera ormai cronica, che non gli dava pace neppure centellinando l’attività. E un’età, i quaranta passati, che per quanto la scienza e la tecnologia abbiano fatto progressi rappresenta ancora un limite pressoché invalicabile.
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Quando è "giusto" dire basta

E Nadal? Anzitutto, la mia non richiesta opinione. Un tempo pensavo che in quella parziale rinuncia al libero arbitrio ci fosse anche la questione sul quando è opportuno dire basta, se sei un personaggio che appartiene al patrimonio collettivo. Ritenevo che uno sportivo, venendo preso a esempio in toto, dovesse tenere un certo tipo di condotta anche nella decisione sul momento giusto per smettere. Con il tempo, mi sono convinto che fosse una maniera parziale di ragionare. In questo senso: un conto è stigmatizzare un campione che, poniamo il caso, crolla in classifica, non si allena più decentemente, eppure sèguita stolidamente a chiedere wild card e a trascinarsi per i tornei, sovrabbonda in esibizioni, si fa invitare dappertutto, pure nei programmi televisivi di dubbia opportunità, diventando un recitante e non più un campione. Per quanto io creda, oggi, che un atleta abbia il diritto di fare tutto ciò che gli è permesso, su certe scelte potrei, appunto, avanzare al più una riserva per mancanza di senso della misura. Ma ecco, in passato paragonavo – e credo non sia giusto – la carriera di un campione a un’opera d’arte che, in certe condizioni, poteva essere rovinata da una coda mesta e malinconica. Ma siamo sicuri sia così? Io non più. Prendiamo Andy Murray: sono anni che lotta come un pazzo, se va bene, per vincere qualche buona partita ogni tanto e galleggiare tra i primi 50-60. Sa benissimo che non tornerà a vincere un grande evento. Perché lo fa? Perché gli piace, perché ama alla follia la fatica spesa per poter scendere una volta di più in campo a rincorrere ogni palla. È, da uomo particolarmente acuto tra gli sportivi, perfettamente consapevole di quanto sia, come dire, “diminuente” per sé dover accettare limiti in gioventù improponibili. Ma non per questo il suo status di ex principale rivale dei triarchi verrà meno. La nostra sensazione può anche essere di tenerezza mista, talvolta, allo sconcerto ma il mantra del “lasciare una buona immagine di sé” davvero può diventare un imperativo morale?
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Ripeto: a meno di non lasciarsi andare a un volgare e sfacciato tour degli stracci, in cui un giocatore bollito si trascina qua e là per mancanza di alternative di vita, o per un ultimo giro col sacco da riempire, perché bisognerebbe imporre una decisione di sentimento popolare a un atleta individuale? Forse danneggia una squadra? Fa male al suo sport? Forse infligge qualche dolore ai nostri sentimenti, vedere che il suo gioco si è appannato, o che le sue gambe si sono imbolsite. L’ultima volta che Boris Becker, anzi, la penultima volta che giocò a Wimbledon, perse contro Sampras e disse che non sarebbe tornato più. Poi ci ripensò e tornò, due anni dopo. Si fece bucherellare di passanti da Pat Rafter. Era diventato macilento, sorpassato dal tempo e dagli acciacchi. La prima volée la colpiva quasi da fondo, tanto era diventato lento. Perse malamente, eppure nessuno si sognò di rinfacciargli che stesse profanando alcunché. Certo: se avesse preteso una wild card per i cinque anni successivi, quando manco più vinceva set in allenamento contro gli sparring partner, si sarebbero potute sollevare domande legittime sul suo senso di responsabilità. In definitiva, la mia idea è che Nadal, benché io fatichi a concepire una tale resistenza al dolore e agli sforzi, sia nella piena legittimità di cercare il finale giusto a una carriera che, comunque vada – sottolineo, comunque vada – ha stabilito nuovi standard nel tennis. Sulla terra battuta, soprattutto, esiste un tennis prima di Rafa Nadal e uno dopo Rafa Nadal. Purtroppo, il nostro sport ha una componente di casualità tale per cui la parola fine la scrive anche il caso: quando giochi col ranking protetto, puoi pescare chiunque e, al Roland Garros, chissà cosa dirà il sorteggio. Potrebbe fare una bella differenza, per colui che a Parigi ha sbriciolato ogni primato. Tra gli estremi nord-sud della nobiltà baciata dalla sorte di Sampras e una certa ottusità testona di Borg c’è una zona in cui ciascun campione, e toccherà anche a Novak Djokovic, dovrà soppesare la sua storia, la propria mentalità, il senso delle cose, la voglia, il rispetto di sé e dello sport – non si va in campo zoppi o dis-allenati, ecco, ma non mi pare sia mai stato il caso dello spagnolo, in dubbio fino all’ultimo anche sul disputare il torneo a Barcellona – e, da quel pastone di emozioni, calcoli, considerazioni e pensieri confliggenti, emettere la propria sentenza sul fine attività. Tutti questi fuoriclasse vorrebbero chiudere con un match point in uno Slam, che discorsi.
Nel caso di Rafa, penso che la sua volontà di non voler mandare in pensione una carriera di sudori e rincorse in una conferenza stampa, jeans e camicia, non sia un atto di sconsideratezza, o di distacco dalla realtà, ma di amore verso il tennis e di fedeltà a uno spirito. Se poi davvero l’ultima pagina non verrà come l’ha, anzi, l’avremmo voluta, non per questo qualcuno avrà buon diritto a buttare via il libro.
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Nadal e l'ultimo saluto alla "sua" Barcellona: "Doloroso, ma guardo avanti"

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