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Addio a Tony Parker, l'ultimo grande playmaker puro della NBA

Daniele Fantini

Aggiornato 11/06/2019 alle 20:05 GMT+2

Dopo 18 stagioni spese quasi interamente con i San Antonio Spurs e quattro anelli vinti, Tony Parker ha annunciato il suo ritiro a 37 anni: se ne va l'ultimo dei grandi playmaker puri, un giocatore d'altri tempi con un bagaglio tecnico ormai lontano dall'evoluzione del basket moderno.

Tony Parker, San Antonio Spurs, focus

Credit Foto Getty Images

Nel dizionario del basket, Tony Parker sarebbe sinonimo di playmaker. Playmaker puro, vero, probabilmente l'ultimo grande capostipite, assieme a Jason Kidd, di una razza ormai in via d'estinzione nella pallacanestro moderna delle combo-guard, sempre più orientate verso la capacità di mettere punti a referto e di essere pericolose con il tiro dall'arco.
Tony Parker non era un giocatore appariscente, una "macchina" da numeri come tante point-guard moderne: era l'emblema della concretezza, per quella sua capacità unica di leggere le situazioni e decodificare la scelta giusta. Non quella più spettacolare, ma sempre quella più efficace. Non quella per poter necessariamente finire a referto (la sua media-assist in carriera è pari a 5.6, non eccezionale), ma quella per portare a un armonico sviluppo dell'azione.
Si dice che il playmaker sia la propaggine della mente dell'allenatore in campo. Non a caso, Tony Parker è stato per 17 anni l'attendente di Gregg Popovich, cervello concreto per eccellenza, probabilmente il miglior coach dell'ultimo ventennio assieme a Phil Jackson, nell'era che possiamo ormai definire "pre-moderna" della NBA.
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Tony Parker e Gregg Popovich hanno lavorato insieme per 17 stagioni con i San Antonio Spurs, vincendo quattro anelli.

Credit Foto Getty Images

La lunga epopea dei Big Three con Duncan e Ginobili

Con quei San Antonio Spurs che lo scelsero con la numero 28 al draft del 2001 pescandolo dal sommerso del basket francese, Parker ha vinto quattro anelli, prolungando fino al 2014 la dinastia cominciata nel 1999 sotto il segno di Tim Duncan e David Robinson. Con il ritiro dell'Ammiraglio nel 2003, le Torri Gemelle si sono poi trasformate nei Big-Three: Tony Parker, Tim Duncan e Manu Ginobili, orchestrati da Gregg Popovich alle spalle, sono stati il terzetto più coeso, longevo ed efficace della NBA degli anni 2000, capace di aprire un ciclo vincente durato 11 anni (quattro anelli tra il 2003 e il 2014).
Con Duncan, Tony Parker si intendeva a meraviglia, due personalità cestistiche identiche e perfettamente connesse tra loro, ma intrappolate in corpi diversi. Il caraibico aveva lo stesso mind-set del franco-belga: concretezza. Con Ginobili è servito qualche momento di adattamento in più, per quel suo emergere dell'animo latino, più istinto e improvvisazione, ma Manu aveva un'altra cosa in comune con loro: una voglia matta di vincere e, soprattutto, di sacrificarsi per farlo.
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Manu Ginobili, Tim Duncan, Gregg Popovich e Tony Parker festeggiano il trionfo dei San Antonio Spurs nelle NBA Finals del 2007.

Credit Foto Getty Images

Un basket romantico che ormai non c'è più

La carriera a San Antonio di Parker è durata 17 anni, per quasi 1.200 partite di regular-season e oltre 200 di playoff. Quasi due decadi che hanno visto i nero-argento occupare stabilmente le posizioni di vertice della Western Conference, rendendo Gregg Popovich il coach con la percentuale più alta di partite vinte della storia dopo Phil Jackson. Due decadi che hanno anche testimoniato la trasformazione della pallacanestro nei suoi fondamentali: Parker era un artista nel palleggio-arresto e tiro dalla media distanza e aveva il suo marchio di fabbrica nella lacrima, quel terzo tempo con rilascio anticipato per eludere le stoppate dei centri che riempivano le aree in quegli anni.
Ora, il gioco ha allargato il campo, quelle aree non sono più intasate, e lo studio analitico dei numeri ha cancellato tutto quello che c'è nel mezzo imponendo il diktat della doppia alternativa: andare al ferro o tirare da tre punti. Ma Parker non è mai stato un giocatore potente/muscolare e non ha mai avuto grande confidenza con i piedi oltre l'arco, come testimoniano le sue medie in carriera: 12.6 tiri da due tentati in media a partita contro gli 1.3 da tre punti e 0.4 realizzati. Una tripla ogni due partite e mezza. Roba d'altra epoca, di un basket romantico, che metteva il cuore e l'istinto davanti alla freddezza delle statistiche e dei numeri. Ed è probabilmente anche per questo che, una volta lasciata quella che è stata la sua casa cestistica per una vita intera, Parker ha retto un solo anno in un basket che ormai non è più suo: adieu, Tonì...
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