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Australian Open: da torneo della tristezza a Happy Slam in 40 anni
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Pubblicato 01/01/2025 alle 20:18 GMT+1
AUSTRALIAN OPEN - A raccontarlo qualche tempo fa, che un italiano avrebbe giocato gli Australian Open 2025 da campione in carica, ci avrebbero dato senza indugi dei matti. Ma pure se avessimo detto, nel tennis del passato, che quello in procinto di iniziare sarebbe diventato l’Happy Slam, il torneo preferito dai giocatori. Storia del Major di Melbourne negli ultimi 40 anni
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A raccontarlo qualche tempo fa, che un italiano avrebbe giocato gli Australian Open 2025 da campione in carica, ci avrebbero dato senza indugi dei matti. Ma pure se avessimo detto, nel tennis del passato, che quello in procinto di iniziare sarebbe diventato l’Happy Slam, il torneo preferito dai giocatori, quello per cui ci si prende a pallate fin sotto Natale pur di mettere via quei punticini necessari anche solo per sperare di ottenere un pertugio di accesso alle qualificazioni. E pazienza se bisogna volare dall’altra parte del mondo, metterci due giorni per toccare terra – anzi, cemento – e spendere un fracco di soldi per il volo: tutti argomenti un tempo validissimi per evitare la trasferta fino a quando, ed è storia piuttosto recente, questo Slam è riuscito ad agganciare, prima di perderlo per sempre, il treno degli altri tre.
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A voler essere ingenerosi, gli Australian Open rischiarono di morire per abbuffate festive, per colpa dei troppi campioni. Furono una sorta di Slam a statuto speciale, e proprio in ragione della loro autonomia, rischiarono di perdere lo status di primo pilastro della stagione e i colpevoli erano stati proprio loro: i leggendari Lew Hoad, Rosewall, Frank Sedgman, John Newcombe, il recentemente scomparso Neale Fraser, Tony Roche. Insieme, per restare in una metafora coeva, erano come il Brasile di Pelè e Garrincha uniti all’Olanda del calcio totale di Cruyff. Ormai, il torneo si era accomodato sullo status di megacampionato nazionale, sebbene aperto anche agli stranieri: tanto che, come un circo itinerante, si disputavano non in una unica sede ma, a rotazione, a Brisbane, Sydney, Adelaide e Melbourne. Strano, no?
Finché, ma solo nel 1972, non si decise che dovessero prendere residenza nello stadio del Lawn Tennis di Kooyong, un sobborgo di Melbourne. Il mondo, a quei tempi, era ancora grande. Gli aerei non somigliavano ad autobus con le ali, la parola "digitale" non significava granché di tangibile e, più che tutto, che bisogno c’era di accattivarsi le simpatie del tennis-mondo, quando gli Aussie mates che si dividevano i titoli del Roland Garros e Wimbledon erano gli stessi che potevano garantire spettacolo e protagonisti nell’amato torneo di casa? È sufficiente scorrere i nomi dei semifinalisti dell’edizione 1960: Fraser, Bob Hewitt, Laver, Emerson. Quattro australiani. 1961: Laver, Phillips-Moore, Stolle, Emerson. 1962: uguale al 1960. 1963: Emerson, Hewitt, Stolle, Fletcher. Sempre così. 1967: cinque quartofinalisti aussie, tre semifinalisti su quattro, vincente Emerson. Prima edizione Open, 1969: sei quartofinalisti, tre semifinalisti su quattro, Laver trionfante e autore del suo secondo Grand Slam.
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Finché, però, non accadde un fatto largamente imprevisto: i proprietari del torneo, intesi come giocatori che lo avevano oligarchizzato, invecchiarono e, per somma sorpresa di tutti, nessuno li rimpiazzò. La bandiera stellata con sfondo blu iniziò a essere meno dilagante e, toh, nel 1970 vinse (undici anni dopo l’ultimo non australiano) Arthur Ashe. Nel 1974, toccò a un giovane e arrembante Jimmy Connors, già armato di racchetta di metallo. La magnificazione dell’autarchia divenne, a poco a poco, una autoghettizzazione mortale e, per quanto sia incredibile a dirsi, dopo aver permesso in sole 12 edizioni, a partire da quella inaugurale del 1905, che uno straniero si accaparrasse il titolo, la finale degli Australian Open del 1976 finì per vincerla per l’ultima volta un aussie.
Manco uno dei primi: un tizio di Gosford, numero 212 al mondo, solito pagarsi le spese da professionista facendo le pulizie nottetempo in un ospedale. Si era fatto largo in un tabellone in cui la testa di serie numero uno era sì il divo Ken Rosewall, ma ciò che poteva restarne a 41 anni. Due iscritti su tre, nel 1976, erano ancora australiani, divisi in due partiti: uno in declino anagrafico, l’altro che aveva solo l’età dalla sua, e poco talento. Con un servizio assassino e in una giornata di vento che sporcò le condizioni di gioco in maniera oggi intollerabile, Edmondson stordì John Newcombe e mise le mani, con sguardo meravigliato più che gioioso, sul titolo. Mezzo stadio era deserto, la gente aveva preferito non sfidare la calura e previsioni del tempo funeste. In centotrenta, quel pomeriggio, furono portati via a braccia dagli spalti. A metà della finale, una tempesta di vento e acqua aveva interrotto il gioco per mezz’ora: i seggiolini dei giudici volavano per aria, il pubblico scappava. Quel giorno, su tutto, Mark Edmondson rese ufficiale l’ovvio: di quel torneo solo formalmente Slam, non interessava più molto al resto del mondo e, allora, tanto valeva farlo precipitare in calendario dal primo all’ultimo posto. Insieme ai titoli di coda della stagione.
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1977: l'anno dei due Australian Open
Così accadde. Nel 1977 se ne giocarono due, di Australian Open: il primo, a cavallo di capodanno tra il 1976 e il 1977. Il secondo, dal 19 al 31 dicembre del ‘77. Di due, eventi però, non riuscirono ad allestirne uno che fosse anche solo lontanamente rassomigliante agli altri tre. Quindi, successe che lo Slam dell’Asia-Pacifico, come ormai viene venduto sul mercato il torneo di Melbourne, il più accogliente per pubblico e giocatori, ricco quanto i colleghi di Parigi, Londra e New York, per un certo momento della sua esistenza si era compresso in un vago e soprattutto parecchio fuori mano e fuori rotta Open della… tristezza. La materia prima casalinga era esaurita, salvi il pirata Pat Cash e i soci McNamara e McNamee. Bjorn Borg, l’Orso, regnò su Wimbledon dal 1976 al 1980. Vinse per sei volte a Parigi. I suoi colpi stracarichi di topspin non funzionarono mai abbastanza per New York (quattro finali, tutte perse: insomma, ci provò seriamente) ma la materia prima per tentare il Grand Slam non mancava, giacché aveva dimostrato di cavarsela alla grande anche sull’erba – fino al 1987 fu la superficie del torneo, ospitato a Kooyong; si passò al cemento di Flinders Park dal 1988. E allora perché non provarci in Australia? Glielo chiesero: «Perché non ha senso, saltare da una parte all’altra del mondo senza pause. Ogni tanto, ci vuole una sosta. L’ho detto per una vita, loro non mi hanno mai dato retta e allora ho deciso di risolvere la faccenda a modo mio: boicottando il torneo. Mai pentito di averlo fatto». Pensate se, oggi, Sinner o Alcaraz si esprimessero in quella maniera, dichiarando candidamente di preferire cominciare la stagione con il torneo dei Rotterdam a febbraio.
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I fuoriclasse iniziarono a marcare visita regolarmente. Dopo il 1978, andò in pensione pure lo zio Ken Rosewall. Newcombe si era appena ritirato e un raro statunitense di alto livello affezionato al torneo, Arthur Ashe, era agli sgoccioli della carriera, peraltro con le avvisaglie del male che lo portò a un’assurda morte per Aids, dopo una trasfusione tossica nel corso di un intervento chirurgico. In finale ci capitò pure John Marks, un giocatore che, oggi, potremmo paragonare più o meno a Jaume Munar. Nel 1981, Johan Kriek battè Steve Denton. Non al terzo turno ma in finale. Negli altri tre Slam, frattanto, brillava il genio ribelle di John McEnroe, Borg assassinava il serve&volley con il tospin e si faceva Natale a Stoccolma, Connors scudisciava e pompava i bicipiti (dopo il successo del ’74 e la finale del ’75, in Australia si era ben guardato dal farsi vivo). L’anno successivo, il 1982, altro giro e altra finale: ancora Kriek contro Denton. Un’aura di scalogna ammantava Kooyong e, senza campioni né spiegazioni per il tracollo dalle stelle alle stalle, gli australiani si guardarono negli occhi: avanti così, e il titolo di quarto Slam sarebbe stato trasferito altrove. Bisognava smetterla di ragionare da provinciali e di leccarsi le ferite perché l’Australia non era più capace di creare giocatori.
La svolta
Toccava attirare gli stranieri spariti: aumentare il montepremi, magari ripensare alla radice il torneo. Per esempio: basta con l’erba, basta con lo stadietto di Kooyong con un centralino da ottomila posti. Gli Stati Uniti, dopo la terra verde di Forest Hills, avevano scelto il cemento e un’area enorme lontano da Manhattan, lanciando i nuovi Us Open nel 1978 con un catino immenso, più di ventimila persone. Gli australiani si accodarono: fecero studiare una resina simile al cemento e individuarono negli spazi a perdita d’occhio di Flinders Park la sede giusta per uno Slam. Ovviamente, avevano metri quadrati e dollari a disposizione: una questione che ha impedito, per esempio, al torneo di Roma di provare a infilarsi in una – peraltro mai bandita – gara alla sostituzione del più debole degli Slam. Anche perché il campionato mondiale su terra battuta esisteva già, qualche settimana più avanti, ed era il Roland Garros. Comunque: in due anni di lavoro resuscitarono gli Australian Open con uno stadio raddoppiato, un tecnologicissimo (per il 1988) tetto retrattile contro gli acquazzoni e le botte di caldo. Caricarono sul torneo servizi da resort di lusso e si rifecero un’identità, anche in mancanza di campioni di casa, salvo uno, cioè Pat Cash.
Intanto, il mondo era tornato ad accorgersi di loro: la rete televisiva statunitense Espn, dal 1984, aveva preso a mostrare al suo pubblico le prime dirette dallo Slam dei poveri. Dopo l’edizione del 1985, si decise di tornare alla vecchia data: da ultimo a primo Slam dell’anno e con un calendario ragionato: pausa a dicembre, ripresa delle ostilità con due settimane di tornei nel continente (Adelaide, Auckland) e una, per gli interessati e delusi dagli Open, dopo il torneo (Sydney). Un paio di svedesi rampanti, Mats Wilander e Stefan Edberg, trainarono il ritorno in massa del circo Atp in Australia. All’edizione-vernissage del 1988, si presentarono quasi tutti; tra i grandi, rinunciarono solo Boris Becker e John McEnroe. Un’ultima coda di quell’atteggiamento che, oggi, nessuno si sognerebbe di tenere, ben rappresentata dalle scelte di un altro renitente pentito, Andre Agassi. Il Kid di Las Vegas aveva principiato la carriera da professionista nel 1986 e vinto il primo dei suoi quattro Australian Open solo nel 1995. Agassi, caso unico tra i grandi del tempo, era al suo esordio a Melbourne, a venticinque anni.
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Ai giorni nostri, nessuno si sogna più di trovare mezza scusa per prodursi in un salto del canguro e tirare una riga sulla trasferta aussie: anzi, la lotta è diventata opposta. I giocatori – salvo quelli che ne usufruiscono – protestano perché la regola del ranking protetto è troppo lasca, e permette a tennisti non competitivi, fermi o di ritorno da un infortunio, di farsi vivi in Australia per raccattare un bonifico da ottantamila euro. Un mondo alla rovescia, quello downunder: l’ultima pazzia, la meno probabile di tutte, il trionfo di un tennista italiano a Melbourne Park. È già passato un anno: loro, invece, sono ancora fermi al nostro stesso anno pre-Sinner, il 1976. Non ce l’hanno fatta Philippoussis e Rafter, niente da fare per Lleyton Hewitt, disco rosso anche per Nick Kyrgios. Nelle qualificazioni del 2025 c’è Cruz, figlio di Hewitt: ha quindici anni, imita i colpi di Nick ma dicono abbia – fortuna sua – la tigna del padre. Una combinazione mica male: solo che contro i due fenomeni di oggi, anche fosse vero, potrebbe non bastare ugualmente.
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