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Maradona: Diego, e quell’ultima volta a Berlino

Roberto Beccantini

Pubblicato 26/11/2020 alle 12:09 GMT+1

Maradona - Non è stato un santo, ma è stato un genio. L'ultima volta che lo vidi fu a Berlino, quella notte del 2006. Ed era "mucho" contento che l'Italia avesse vinto i Mondiali contro la Francia.

Focus Maradona

Credit Foto Eurosport

E così è successo il 25 novembre. Come George Best, come Fidel Castro. Uomini che scelsero la vita contro, per migliorare la loro e il mondo degli altri. Diego Armando Maradona se n’è andato a 60 anni, tappa che avevamo celebrato non più tardi del 30 ottobre, con tanto di inchino ai piedi della sua eternità: che non significa retaggio immacolato, perché Diego tutto è stato tranne che immacolato. Ma indimenticato, indimenticabile.
Lo piange l’Argentina che gli fu culla. Lo piange Napoli che gli fece da madre, moglie e amante, sanguigna e a tratti sanguinosa. Lo piange il calcio. Adorava le sfide, Diego. Per questo, scelse Napoli. Per questo, Napoli gli si è dedicata anima e corpo, e molto gli dedicherà: persino lo stadio, spero.
I lettori di «Eurosport» sanno che per me è stato il più grande, più grande addirittura di Pelé. Della sua esistenza, tirata ai cento all’ora, e della sua carriera, dipinta con il pennello del genio, tutto avete appreso. L’ultima volta che lo vidi fu all’Olympiastadion di Berlino, la notte del 9 luglio 2006. Fabio Grosso aveva appena realizzato il rigore decisivo, e un connazionale di Diego, l’arbitro Horacio Elizondo, ne aveva preso scrupolosamente nota: Italia campione del Mondo, Francia battuta.
Potete immaginare il groviglio di emozioni e sentimenti in quella tribuna-pollaio che mi accingevo a lasciare dopo aver trasmesso il servizio a «La Stampa». Ecco: fu in quel preciso istante che, guardando in alto, lo vidi. Gli urlai «Diego, Diego». Mi sorrise. Si ricordava di me, mi salutò addirittura per nome. Fra noi c’era ressa, c’era fretta. Gli chiesi, un po’ a gesti e un po’ a parole, se fosse contento. «Mucho». Scosse la testa. Felice che avesse vinto l’Italia. Felice che avesse perso la Francia, Paese nel quale aveva «rischiato» di finire quando, stanco di Napoli e del Napoli, aveva flirtato con il Marsiglia di Bernard Tapie.
Quattordici anni fa. Già pesante, ma non così «gordo» come avremmo imparato a riconoscerlo. E sempre netto, schietto, nei giudizi. Non era un ruffiano, si cibava d’impulsi, fu la sua forza e il suo limite. Si faceva (ma non si atteggiava: questo, mai), sparava ai giornalisti, stanava i poteri, passava da un letto all’altro, si sposava e si separava, faceva figli e teneva comizi, ma quando entrava in campo si lasciava dietro una vita, quella alla quale non sapeva resistere, ed entrava nell’altra, quella che non gli sapeva resistere.
Ecco. L’ultima volta ha sempre un sapore speciale. Avrei potuto citare la punizione indiretta contro la Juventus al San Paolo (c’ero) o l’asado al quartier generale di Ezeiza, periferia di Buenos Aires, con suo papà e Carlos Salvador Bilardo, il ct che aveva preso il posto di Cesar Luis Menotti. Ma Berlino, quell’attimo e quel sorriso me li porterò sempre nel cuore. Mi fecero sentire importante (visto? Maradona l’ha chiamato per nome).
Non è stato un santo. E’ stato un genio. Si è piaciuto così. E da peccatore a peccatore, mi basta. Grazie, Diego.
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