Dal problema quarantena al calendario strozzato: il rischio “incalcolabile” del calcio che riparte
Aggiornato 29/05/2020 alle 13:48 GMT+2
Dicono che servisse un segnale al Paese. Il calcio ritorna: eccolo. Gli ultràs restano divisi, il fanciullino che è in me esulta: ma solo lui. I dubbi mi assillano. E non sono lievi. La paura è che, rianimato il calendario, tutto rimanga come prima, quando invece sarebbe opportuno ridurre le squadre di Serie A a 18 e mettere mano anche a B e C.
Trasmette un sentimento strano, questo esubero di porte chiuse proprio nel giorno in cui, il 29 maggio del 1985, porte troppo aperte ci precipitarono nella strage dell’Heysel, 39 morti addosso a Juventus-Liverpool. Si giocò comunque, quella sera. E comunque, 35 anni dopo, si tornerà a giocare: perché sì, the show must go on, lo spettacolo deve continuare (nel caso specifico, ricominciare). Virus o non virus. Quarantena o non quarantena, argomento che tiene pericolosamente in ostaggio gli attori. Con il rischio che i muscoli saltino come tappi; con i sintomi dei Bologna di turno a seminare ansia; con i numeri di Lombardia e Piemonte che alle altre regioni sembrano “pretattica”. Dicono che servisse un segnale al Paese. Il calcio ritorna: eccolo.
Dietro il "conclave" di ieri, e il relativo “habemus datam”, c’è un ingorgo di interessi che Vincenzo Spadafora ha faticato a domare. Da un lato, l’incubo di un sistema allo sbando; dall’altro, il pericolo che finire la stagione sazi al punto da trascurare riforme non più eludibli. Spero che l’emergenza solleciti e diffonda un impegno capace di andare oltre i pruriti dell’élite e coinvolgere la base, dai dilettanti alle donne.
Gli ultràs restano divisi, il fanciullino che è in me esulta: ma solo lui. I dubbi mi assillano. E non sono lievi. Se il gran rifiuto della Francia ci pare un mezzo suicidio (davvero?), il coraggio della Germania ci fa pensare ad Angela Merkel come alla “mamma” d’Europa, orgogliosa che al suo generoso seno si siano aggrappati spagnoli, inglesi e italiani.
I giocatori, parole e musica di Damiano Tommasi, non sono del tutto convinti, a maggior ragione dopo aver letto il parere del professor Luca Richeldi, direttore del dipartimento di pneumologia al policlinico Gemelli di Roma, secondo il quale “Calciatori e cantanti rischiano di subire effetti molto più gravi” (fonte, «La Stampa» del 27 maggio). Gli stati generali (Ministero, Federazione, Leghe, Sindacati, Arbitri) si sono scambiati protocolli come fossero proiettili e, alla fine della guerriglia, è nata una firma. La storia dirà se lo smacco dell’8 settembre o il tripudio del 25 aprile.
Sul fronte televisivo non capisco perché, pur di arginare la peste, si possa ledere il principio di libertà personale ma non consentire partite in chiaro per un periodo di due mesi (e in condizioni di assoluta urgenza). La paura è che, rianimato il calendario, tutto rimanga come prima, quando invece sarebbe opportuno ridurre le squadre di Serie A a18 e mettere mano anche a B e C.
Riparte la Liga (8 giugno o 11 giugno?), riparte la Premier (17), riparte l’Italia (13-14-17 coppa, 20 campionato). Ci siamo tolti la maschera, nella speranza di non dover raccogliere le mascherine e di non essere travolti dalla valanga dei contratti che ballano attorno agli accordi fra “gentiluomini” (prego?).
Centoventiquattro partite in stadi deserti: mai successo, per un periodo così lungo (non ditelo ai medici, però). Vittorioso nelle tre gare post pandemia, il Bayern ha il titolo in tasca, a conferma che i più forti se ne infischiano del vuoto. Tra Juventus e Lazio c’è viceversa un punto, uno solo. Anche per questo, milioni di virologi stanno tornando precipitosamente allenatori. Cinque cambi, proteste a distanza, piano B (playoff e playout), piano C (classifica congelata). Controlli a tappeto. Tamponi votivi. Candele ai santi patroni. E la chiamano estate.
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